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“L’Azione” di Sara Mannheimer: esistere significa occupare spazio

Marina Finaldi di Marina Finaldi
29 Ottobre 2021
in Billy
Tempo di lettura: 4 minuti
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Ho lasciato sedimentare L’Azione di Sara Mannheimer (Safarà) per qualche giorno, dopo averne ultimato la lettura. I semi piantati dalle sue parole continuano a germogliarmi dentro e a fornire nuovi angoli, spiragli, (s)punti d’osservazione.

Mannheimer viene presentata come un’autrice eclettica e la sua penna non tradisce, certo, quest’aspettativa. Non si smette mai, leggendo L’Azione, di arrestare la corsa dell’occhio sulla pagina per rileggere un periodo particolarmente poetico o ammirare gli accostamenti sinestetici e sineddochici frequentissimi. A tal proposito, va doverosamente menzionata la traduttrice, Deborah Rabitti, per la sua capacità di destreggiarsi con la prosa arzigogolata di Mannheimer.

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Chi fosse irresistibilmente attratto da questo libro, legga, qui, una raccomandazione: L’Azione non è un romanzo qualsiasi. La promessa contenuta nel titolo non corrisponde, in realtà, quasi mai al compiersi di un evento, a rivolgimenti di trama burrascosi o a colpi di scena sensazionali. Mannheimer libera la sua narrazione perfino dalla gabbia della linearità del tempo. Tutta l’azione ha luogo nella mente della protagonista, che ribolle e smania e si dimena per conoscere, per suggere avidamente la polpa dei libri che ha in casa. Allo stesso tempo, a questa brama ardente, la donna cerca in tutti i modi di resistere mantenendosi occupata. Vaga tra le stanze della sua casa trattenendo l’istinto di dirigersi verso la biblioteca. Entrarvi a toccare i libri, aprirli, leggerli, vorrebbe dire scoperchiare lo scrigno segreto che custodisce in fondo al cuore.

Sono tre gli ambienti della casa in cui la protagonista senza nome passa gran parte del suo tempo e a ciascuno affida un appellativo che ne rimodula la funzione. La cucina diviene, così, l’Accomodatoio, perché è il luogo in cui ci si dedica ai lavori manuali che placano lo spirito e il pensiero. Accomodano e rammendano, in un certo senso, non solo le centinaia di pezze lavorate all’uncinetto dalla protagonista, ma anche il tessuto del suo vivere. L’azione che avviene nell’Accomodatoio è, per lei, azione propriamente detta, movimenti del corpo che si traducono in prodotto finito: un pasto caldo o un centrino. L’azione tiene lontano il sussurro seducente che proviene da una camera più addentro, alla quale si giunge attraversando la Stanza di Mezzo.

La Stanza di Mezzo funge da ponte fra due mondi, terra fantastica sulla quale si aprono portali, il tutto che si dipana intorno come una possibilità. La possibilità sulla quale si spalanca il portale di Mezzo è la Stanza dei Dorsi, la biblioteca. I Dorsi sono sineddoche corporea dei libri. Questi riposano sugli scaffali della Stanza, con le spalle (i dorsi) voltate a proteggere il loro contenuto di polpa dalle incursioni umane. Il mistero che celano è tale e talmente pericoloso da dover essere approcciato con la massima cura e attenzione, con gli strumenti rituali appropriati. Dai libri, anziché inghiottirli, si può essere inghiottiti, avverte la protagonista. Per questo lei ne è stata a lungo la custode, catalogandoli (sempre nella routine di un rituale preciso) con maniacale minuzia senza, però, trovare il coraggio di leggerli. Fa, del resto, parte del patto che ogni lettore stringe con il supporto di carta che conserva fra le mani la fiducia di abbandonarsi interamente all’accoglienza del testo, di abitare per un po’ una dimora diversa.

Da un punto di vista meta-letterario, la casa è, in effetti, il libro. La protagonista abita e vive e respira entro le righe. In questo senso, esiste grazie al racconto, ma ne è anche inevitabilmente prigioniera perché ogni tentativo di venir fuori dalla casa cartacea è destinato a tradursi nel suo svanire. Il frenetico ricercare l’azione è un modo per darsi corpo, per occupare spazio e per gridare la propria volontà di sopravvivere alla storia. Quando, vinta dal desiderio, la protagonista estrae finalmente un libro dalle file perfettamente ordinate della sua biblioteca, comincia a sentire il bisogno impellente di accrescere, insieme alla conoscenza, anche il corpo.

Cerca di replicare nell’aspetto l’appetito dell’anima e mangia per darsi una forma rotonda, una forma robusta, sensuale, che non possa svanire. Rivendica il diritto a esistere riempiendo lo spazio. L’associazione dei libri con il cibo è, peraltro, ben chiara sin dall’utilizzo della parola polpa. È, anzi, esplicito proprio il riferimento biblico al frutto della conoscenza. Se su Eva ricade la colpa del peccato originale per aver ceduto alla tentazione di mordere la mela, la protagonista avverte su di sé il peso di quella tentazione e la teme. Teme il potere delle storie perché sospetta di non saperle controllare. Come voce narrante del romanzo, però, come guida del lettore nei meandri della casa, la donna diventa padrona della storia.

L’importanza che Mannheimer attribuisce all’elemento spaziale, architettonico, nell’impalcatura letteraria e nella creazione di un ambiente dove le donne tessono con l’azione l’ordito del narrato ricorda molto da vicino Austen e Woolf. Per Austen, le case sono vive quanto i personaggi che le abitano e di questi svelano più di quanto essi stessi non dicano. Attraverso le dimore, le sale da ballo, i giardini la celebre scrittrice inglese mette a nudo la sua società, ma non solo.

Nell’Inghilterra del XVIII secolo, l’occupazione dello spazio era una questione di genere. Alle giovani donne veniva insegnato dai padri o dai fratelli dove fosse concesso loro stare e come comportarsi in quegli spazi. L’eroina di Persuasione, un po’ come la protagonista de L’Azione, si sente costretta nel posto che le è stato assegnato e pian piano si espande, occupa più spazio, fino a sfidare la convenzione. Lo spazio fisico per intendere la possibilità di rivendicare l’emancipazione intellettuale e fisica della donna è al centro del notissimo saggio di Virginia Woolf Una stanza tutta per sé, la cui tesi principale fonda sull’idea che, private dello spazio per esistere solo per se stesse, le donne finiscano per non esistere affatto. La protagonista di Mannheimer, pur prigioniera, ha compiuto questo passo di emancipazione perché, nell’agire la sua storia, in qualche modo, crea se stessa.

Tutto quando abbia preso forma, parvenza, è creazione. […] L’uomo è parte della brulicante opera di finzione che può essere definita cielo, mare, montagna, albero, corpo, vestito, volo. Ma la realtà non ha volto, non ha linguaggio, non ha davanti o dietro, non ha sopra o sotto. La realtà non trova spazio in alcun luogo. Io ho una mano e in essa trova spazio tutto il maneggiabile. Io ho uno scrigno che potrebbe essere aperto invece è chiuso e contiene il non-accaduto, il non-ancora […].

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