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Il Ddl Zan e la metafora sulla morte

Marina Finaldi di Marina Finaldi
28 Ottobre 2021
in Attualità
Tempo di lettura: 4 minuti
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È morto. L’hanno ammazzato. Affossato. Tradito. La corsa del Ddl Zan si è arrestata in Senato, azzoppata da quella che è stata definita la tagliola di Lega e Fratelli d’Italia. Il disegno di legge contro l’omotransfobia non ha avuto storia facile e il triste epilogo di questa vicenda, corredato dagli ignobili applausi in Aula alla notizia del suo accantonamento, purtroppo non stupisce. In 514 hanno votato favorevolmente e in segreto perché l’esito fosse esattamente questo.

In Italia il discorso sui diritti civili ristagna sempre in preamboli retorici sulla fantomatica teoria gender, sull’apparente minaccia di spiegare ai bambini che al mondo esistono sfumature che vanno oltre il binarismo di genere e l’eterosessualità, per veleggiare, poi, verso le acque torbide della dittatura del politicamente corretto della sinistra che ci vorrebbe tutti uniformati a un’unica linea di pensiero arcobaleno. Si individua nel politicamente corretto – così com’è inteso oggi – una minaccia alla propria libertà di odiare, che sulla bilancia legislativa ha un peso specifico maggiore del diritto di tantissimi a non essere discriminati, scherniti, picchiati, violentati, uccisi, spinti al suicidio perché non conformi al requisito di eteronormatività che la società richiede.

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La banalizzazione del dibattito, la lotta per i diritti civili impugnata sempre come argomento strumentale nelle scaramucce politiche per gli equilibri di potere suonano, in effetti, un po’ come un delitto. Un’ampia fetta della querelle sul politicamente corretto si concentra, oggi, sulla questione del linguaggio inclusivo. Riconoscere e accordare un posto nella lingua viva a tutti o rimanere ancorati alla tradizione e farcela bastare? Le opinioni divergenti sul tema si accendono fino a diventare inconciliabili, sino a perdere il contatto con il problema, avvertito sul piano reale, tangibile, del quotidiano, del rifiutare all’altro lo stesso diritto che ho io al riconoscimento.

Trovo, dunque, che la riflessione sul linguaggio adoperato in queste ore per discutere del destino compiuto del Ddl Zan, un primo passo – anche imperfetto – verso il riconoscimento pieno delle persone queer e della loro dignità sia doverosa. Qui siamo un gradino oltre la metafora, spesso utilizzata nel discorso politico, della guerra: si identificano lo stesso i vinti, e allo stesso tempo non si può parlare di vincitori. Chi avrebbe, del resto, l’impudenza di dirsi vittorioso per aver negato una legge contro l’odio? Giorgia Meloni, sul suo profilo di Facebook festeggia, sì, la vittoria ma lo fa riferendosi alla follia del PD. Fratelli d’Italia trionfa contro la pazzia dell’avversario politico, mica contro le persone gay. Importante, però, anche qui è la scelta di parole: l’omosessualità e la transessualità sono state storicamente associate alla malattia mentale e, ancora, subiscono l’influsso linguistico di questo retaggio, per cui dall’omosessualità si può guarire, si è queer perché confusi o deviati. O, peggio ancora, l’interpretazione freudiana: non si sono ricevute le giuste attenzioni da piccoli.

Il Ddl Zan è morto, si scrive sui giornali e sui social media. A infliggere il colpo di grazia sono stati franchi tiratori celati dal voto segreto. Nelle ultime ore, i quotidiani si affannano nella pubblicazione di breaking news con nuovi indizi e speculazioni sull’identità di chi ha votato a favore dell’accantonamento. La presentano come una partita a Cluedo, la battaglia per i pari diritti; la rendono ancora e solamente sfondo della trama da soap opera della nostra politica. L’esultanza bambinesca degli onorevoli in Aula riverbera in un silenzio attonito e umiliato di speranze defunte.

Sono moltissimi gli attivisti per i diritti LGBTQ+ e gli alleati ad adoperare la metafora funebre. Si parla del Ddl come di una persona che abbia esalato l’ultimo respiro. Si allude alla sua eliminazione violenta: ammazzato, dicono. Affossato. Inumato sotto due metri di terriccio e ipocrisie. La metaforica morte violenta del Ddl è sublimazione della violenza, psicologica, verbale o fisica, subita dalle persone queer. Solo nel 2020, secondo Arcigay, nel nostro paese si sono verificati 138 casi di aggressione omofoba: quasi una ogni due giorni. Ogni applauso scandito in Aula, ieri, è un chiodo affilato conficcato nella bara del disegno di legge. Tuttavia, quest’immagine vivida della morte può avere anche un’altra lettura. Alludere alla legge contro l’omotransfobia come a un morto ammazzato ha un connotato culturale intimidatorio non da poco: muoiono ammazzati gli infami, i fessi e i criminali.

Nella nostra cultura e nella nostra lingua, poi, la morte è una questione definitiva e irrevocabile. Le cose morte non hanno utilità e sopravvivono, tutt’al più, nel ricordo di pochi. Se il disegno di legge contro l’omotransfobia è veramente morto, tutto ciò che si è provato a realizzare in questi mesi è a sua volta vanificato, cancellato. Non credo sia questo il caso. L’ideale di una società giusta, in cui tutti vedano riconosciuto il proprio diritto all’esistenza, non muore. Forse, per restare nella metafora, è decaduta questa sua incarnazione. Forse, resterà per un po’ sospesa come uno spirito. Non di quelli invisibili e impalpabili cui si passa attraverso sentendo al massimo un brivido lungo la schiena.

La comunità LGBTQ+ è rimasta troppo a lungo imprigionata in dinamiche di invisibilità. Uno spirito di quelli implacabili, di quelli che infestano gli ambienti, i pensieri, le piazze, sino al ricongiungimento con una nuova, corporea, manifestazione.

Prec.

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