L’immagine che accompagna un testo o racconta da sola una storia è un elemento ricorrente. Prima dell’arrivo della fotografia il compito della divulgazione attraverso la riproducibilità da una matrice era stato svolto dall’incisione e dalla più economica litografia. Queste tecniche, però, erano legate all’esecuzione manuale della matrice e, nel caso dell’incisione, la pratica risultava lenta e costosa.
Non è un caso che molti fra i primi fotografi provenissero dalle botteghe degli incisori e, inoltre, è proprio con l’incisione e con la litografia che si è intrecciata la storia della fotografia per quanto attiene alle sue funzioni documentarie. Il passaggio dalla riproduzione d’arte alla fotografia ha permesso di creare una continuità fra le vecchie e le nuove tecniche, dove ciascuna traeva vantaggio dai lati positivi dell’altra. Prima che si realizzassero i sistemi fotomeccanici, l’aggancio con le pratiche incisorie avveniva secondo un iter più complesso: il dagherrotipo e la fotografia costituivano la ripresa dal vero, la quale, a sua volta, si traduceva in litografia e incisione, al fine di consentire un sistema di stampa più semplice e in numero elevato di esemplari.
A Napoli l’attività incisoria e quella litografica erano abbastanza fiorenti fin dai tempi più antichi. La litografia, in particolare, fu introdotta dai francesi e divulgata grazie alla presenza di testi del Senefelder e del Mairet. Nel 1824 nella città partenopea venne pubblicata la traduzione proprio del manuale del Senefelder e del primo manuale italiano curato da Federico Bardet di Villanova, primo tenente del Corpo Reale del Genio, addetto al Reale Officio Topografico di Napoli nel 1830.
Qui, gli artisti ricorsero abbastanza presto alla fotografia per il ritratto, per documentare le loro opere – di qualsiasi tipologia fossero – o anche semplicemente per uso personale. Proprio il “ritratto d’artista” divenne ben presto uno dei generi più richiesti sul mercato insieme ai cosiddetti “ritratti delle celebrità”. Il movimento del pittorialismo esprimeva bene da una parte la piena consapevolezza del fotografo riguardo all’originalità e all’autonomia dei mezzi espressivi e tecnici della fotografia e dall’altra una mimetizzazione pittorica fino ai limiti della contraffazione virtuosistica. In questa direzione si andò facendo strada la consapevolezza che la fotografia fosse, in realtà, una branca dell’archeologia industriale e la crisi della pittura nient’altro che la crisi dell’artigianato.
Non è un caso che nell’Ottocento la fotografia comparisse in tutte le mostre industriali, in Italia a partire da quella di Firenze del 1861 inserita nel gruppo delle arti grafiche. Fu proprio in questo settore, infatti, che lo sviluppo industriale vide i suoi maggiori successi con l’invenzione dei sistemi fotomeccanici, in grado di agganciare i notevoli vantaggi sia della ripresa meccanica dell’immagine in fotografia che quelli della grossa tiratura tipografica in fase di stampa. Il termine “archeologia”, usato in questa circostanza, calza a pennello nel campo degli studi storici di riferimento, dal momento che la scomparsa di molti dati richiede degli strumenti archeologici da “cultura materiale”.
In quest’ottica diviene sempre più importante la distinzione fra fotografi dilettanti e fotografi professionisti, differenza che è stata colta prima da Vitali e, poi, da Quintavalle e Miraglia. Questa distinzione era particolarmente avvertita nel secolo scorso, tanto che nelle esposizioni erano previsti premi distinti per le due categorie. Di conseguenza, vi era una divisione di compiti: da una parte la fotografia creativa, dall’altra la fotografia documentaria. Accanto a queste due fasce di artisti, ne esisteva una terza, e quest’ultima si interessava soprattutto dei miglioramenti tecnici che era possibile apportare alla fotografia, individuando così la figura di scienziati provenienti dall’ottica e dalla chimica.
La situazione del professionismo fotografico a Napoli vide personalità che si trovavano a cavallo tra il periodo industriale e quello in cui prevaleva ancora un’organizzazione di tipo artigianale. Ad esempio, Chauffourier mantenne costante il suo timbro artigianale. Nella gestione familiare dell’impresa, a scattare foto era solo Gustavo Emilio, mentre i suoi non numerosi collaboratori provvedevano allo sviluppo e alla stampa.
Le ditte Alinari e Brogi, invece, impiantarono una vera e propria organizzazione industriale, sviluppando l’attività editoriale, compilando precocemente un catalogo della produzione, ampliando l’organico e utilizzando tutte le tecniche moderne a partire dalla gelatina bromuro d’argento, fino alle lastre ortocromatiche, alla fotografia a colori, alle carte al carbone e alla fotocollografia. La professionalità di case come queste può essere ancora oggi colta nel modo di impostare le campagne fotografiche, grazie all’utilizzo di un folto stuolo di fotografi addestrati in vere e proprie scuole a un modo di vedere unitario in base a precisi canoni, secondo un’organizzazione della materia da fotografare in generi abbastanza definiti: il paesaggio, il monumento, l’opera d’arte, il costume, la veduta animata. Queste categorie erano del tutto funzionali alle richieste del turismo che, sulla scia del Grand Tour, raggiunsero Napoli, divenuta ormai un punto di attrazione e di richiamo fortemente sentito.
