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G8, Salvini, Sciretti (Lega): la politica che sfrutta la polizia

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
14 Febbraio 2019
in Il Fatto
Tempo di lettura: 5 minuti
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Sono trascorsi quasi diciotto anni da quando le strade di Genova si sono macchiate del sangue di Carlo Giuliani. Era l’estate del 2001 e l’Italia, così come l’avevamo conosciuta fino a quel momento, stava tragicamente spegnendosi per fare spazio a quella di oggi, un malato terminale a cui, forse, soltanto l’eutanasia potrebbe dare un po’ di sollievo.

In quei giorni di luglio, infatti, il volto del Paese e della sua gente stava per essere irrimediabilmente martoriato, sfigurato, imbruttito dalle violenze di Piazza Alimonda prima e della Diaz e di Bolzaneto poi, una scuola e una caserma diventate lager nell’afa ligure, mattatoi di democrazia, epitaffi di umanità. Teatri di delitti per cui nessuno avrebbe mai pagato, violenze che la Corte dei Diritti dell’Uomo – condannando lo Stivale a più riprese – avrebbe etichettato come torture ma che da noi si sarebbero rivelate incentivi per le promozioni degli agenti disonoranti la divisa, finendo con lo spegnere ogni possibile futuro focolare pronto ad accendere l’animo rivoluzionario di chi, semplicemente, avrebbe chiesto un mondo più giusto, un oggi più dignitoso, un’esistenza meritocratica, qualcosa che valesse la pena.

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Da allora, dicevamo, sono trascorsi quasi diciotto anni, un tempo sufficiente per maturare, ma anche per rifuggire dall’età adulta, proprio come prevedibilmente ha fatto il Paese sempre all’avanguardia in quanto a regresso, l’Italia, nonostante il puzzo della macelleria messicana – come la definì Michelangelo Fournier, all’epoca vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma – ancora ne riempia le narici, stordendo sia chi ne ha già provato orrore, inibitosi dinanzi a così tanta ferocia perché c’era, l’ha vissuta, vista, sentita, sia chi invece di quell’esperienza sembra non aver capito molto, al punto da citarla a sproposito e pericolosamente.

Come Alessandro Sciretti, capogruppo della Lega alla Circoscrizione 6 del capoluogo piemontese, che lo scorso weekend, dopo la rappresaglia nelle strade di Torino tra anarchici e polizia – seguita allo sgombero dell’Asilo, uno dei più noti centri sociali all’ombra della Mole Antonelliana – ha sentenziato che ci vorrebbe un po’ di Diaz perché, a suo dire, le forze dell’ordine sono troppo limitate nei poteri. Loro, che adesso hanno anche il taser, la pistola elettrica il cui uso Amnesty International cataloga come una violazione del divieto di tortura, catalogabile nei trattamenti inumani e degradanti. Frasi forti, quelle del leghista, che certamente non potevano passare inosservate e di cui lo stesso Sciretti si è scusato definendole una provocazione, frutto della rabbia di fronte alla violenza cieca e al vandalismo indiscriminato che il movimento antagonista sta riversando in città in questi giorni. Ma può uno sfogo arrivare a tanto? E, soprattutto, può quello sfogo essere di un rappresentante delle istituzioni? Lle stesse che non hanno mai risposto di un abuso di potere tramutatosi in mattanza?

Visti i tempi, la risposta più spontanea sarebbe un convinto sì. In fondo, il capogruppo in questione – che su Twitter si definisce egocentrico e narcisista, ma ho anche dei difetti – si forma nella scuderia Salvini, il Capitano che in poco meno di un anno ha saputo scippare il titolo di peggior Ministro dell’Interno – e non era affatto facile – a quel Marco Minniti apostrofato quale sbirro da Gino Strada. Un Vicepremier che di quella divisa, a Genova intrisa di sangue, si veste spesso, probabilmente usurpandola ancora di più. Un attentato alla Repubblica, stando alle parole di Roberto Saviano, un’intimidazione che sa di affermazione di superiorità, un modo per dire io sono la polizia, mettendosene a capo, rendendola di parte. Il che, fatto da un leghista, fa pure un po’ sorridere. Un poliziotto, però, risponde alla Costituzione, alla Repubblica, alla democrazia, al di là delle sue idee politiche a cui, per fortuna, l’uniforme non può e non deve mai piegarsi. Idee che devono restare del cittadino, non del servo dello Stato. Vale a dire il contrario di ciò che il leader del Carroccio sta facendo da quando è al Viminale, sfoggiando capi ufficiali delle forze dell’ordine persino a Montecitorio, come avvenuto un mese fa, quando il Vicepresidente ha consapevolmente profanato le istituzioni, luoghi dai quali qualsiasi corpo armato deve restare fuori a tutela della libera espressione della vita democratica custodita al loro interno.

Quello di Matteo Salvini, dunque, non vuole affatto suonare come un atto di vicinanza agli agenti di pubblica sicurezza – anch’essi spesso per nulla tutelati nell’esercizio delle loro funzioni –, tantomeno vuole farlo la manovra economica approvata dal governo nel tentativo disperato di far quadrare i conti. Nell’ultima Legge di Bilancio, infatti, sono stati tagliati due milioni di euro destinati a vestire proprio chi esce dai corsi di formazione dei corpi armati che, adesso, ironia della sorte, si trova sprovvisto di divisa. Un paradosso che appare simile a quello di Alessandro Sciretti, il quale, camuffando le sue parole di cattivo gusto in solidarietà nei confronti delle forze di polizia, le ha identificate tutte con gli uomini della Diaz, con coloro che hanno gettato discredito sulla nazione agli occhi del mondo intero in risposta a uno squallido servilismo che rima nient’altro che con squadrismo. Di natura fascista, ovviamente. Un accostamento senza dubbio pericoloso e denigrante per gli agenti che, in cambio, svolgono bene – e secondo legge – il proprio lavoro, umiliati anch’essi, come ognuno di noi, in quelle interminabili e calde ore genovesi di cui ancora oggi portiamo i segni.

Con fini propagandistici, quindi, entrambi i leghisti commettono – volontariamente? – un grave errore: strumentalizzare chi, per natura, dovrebbe essere garante di ordine e sicurezza, muovendolo su un’altra casella, regina che dà scacco al re, il popolo che dal 2001 non si è mai più fidato fino in fondo di quella divisa, complici, su tutte, anche le storie di Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi, due a cui le scuse non sono arrivate, anzi. Una diffidenza nei confronti delle guardie che, però, sembra sempre più avallata da chi guida il Paese, un ricorso alla paura dal retrogusto nostalgico, un richiamo non alla disciplina quanto alla manganellata. Il necessario, dunque, per sedare qualsiasi – allo stato attuale pressoché inesistente – desiderio di cambiamento.

Non basta, allora, che Sciretti si assolva con poche parole, non basta chiedere a Salvini di smetterla con i travestimenti, basta pure con la satira che si fa stupida barzelletta. È così che è arrivata Genova, che è stata violata la Diaz, disonorata Bolzaneto. È così che hanno chiarito chi comanda. Non noi, non il diritto, non la Costituzione, a volte nemmeno lo Stato. È così che nascono i golpe e pure i dittatori.

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