Di Caivano non si parla. A Caivano non succede mai niente. Mai fino a quando la cronaca non fa troppo rumore per essere taciuta. Mai fino a quando la stampa locale e nazionale si accorgono di una periferia che si improvvisano a spiegare. È il 19 settembre 2020. È il caso di Maria Paola Gaglione, la giovane uccisa dal fratello perché rea di un amore infetto, o della piccola Fortuna Loffredo, la bambina abusata e poi scomparsa nel Parco Verde. Come Antonio Giglio, quattro anni e una vita ancora da scoprire. Storie talmente violente da non lasciare scampo all’uditorio, tantomeno alla politica, di colpo costretta a inventarsi domande per non dare risposte. È il caso delle due cuginette, poco più di due mani per contarne gli anni, violentate per mesi nel silenzio di strade che chissà se sapevano e hanno taciuto. Passano i giorni, e di Caivano si parla – e non si parla – sempre allo stesso modo.
Perché è così che funziona, di solito: titoli più o meno accattivanti si rincorrono e ripetono, le tribune televisive fanno a gara ad alzare la voce, l’opinione pubblica si indigna, si interroga, si chiede dov’è che ha sbagliato. Poi, con un colpo di spugna, dimentica ogni cosa. Vittime e carnefici, giornalisti e finti tali, politici e religiosi, avvoltoi onnipresenti. Il tutto fino al prossimo episodio, alla prossima tragedia, alla prossima periferia. Quando le telecamere tornano a riaccendersi e i microfoni a urlare. Intanto, Caivano scompare di nuovo, torna provincia, si chiude in se stessa, sola nella morsa di una trappola che le somiglia, nella mediocrità di un presente che è sempre troppo passato e, invece, non passa mai.
Scrivevamo così, appena tre anni fa, su queste pagine che ora sembrano pesanti, difficili da buttar giù. Perché se è vero che fare informazione è anche questo, cercare nel passato per indagare il presente e sperare di riscrivere futuri che talvolta sembrano già segnati, ci sono storie come quelle di questa periferia dimenticata da Dio e uccisa dagli uomini che provocano un dolore quasi fisico, quasi perpetuo, quasi vano se poi torna a bussare con la stessa violenza.
In queste settimane e, purtroppo, anche in queste ore, si è fatto un gran parlare di Caivano. Una corsa pruriginosa di colleghi giornalisti in cerca di dichiarazioni da parte di un popolo che vogliono raccontare come connivente e la passerella, meno nobile del red carpet veneziano, della Presidente Giorgia Meloni. Addirittura, dal 7 settembre scorso, a Caivano è dedicato un decreto legge recante misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile. Una proposta che, a ben vedere, è poco più che un inasprimento delle pene per i ragazzi che commettono reati e/o per le loro famiglie. Una proposta che non serve a niente.
Per anni, nel corso dell’ultimo decennio, abbiamo letto di una camorra acciaccata, scossa dalle incredibili operazioni di pulizia dei quartieri di Secondigliano e Scampia. In particolare, sulle strade all’ombra delle Vele si sono scritte pagine e raccontate storie che ci hanno convinto dello smantellamento di un sistema e di un modus operandi che, a lungo, hanno relegato ai margini del mondo civile aree poi rivelatesi officine di sogni. Eppure, non ci siamo mai realmente impegnati a leggere tra le righe, a farci più domande del dovuto, a chiederci: è davvero cambiato qualcosa? Se lo avessimo fatto, non staremmo oggi a raccontare ancora di questa Caivano, di un altro supermercato delle sostanze stupefacenti, a utilizzare lo stesso linguaggio, a riproporre uguali (non) soluzioni. Iniziative, tutte, che non offrono riscatto né cambiano il destino, fatte per pura propaganda politica, per dirla alla Roberto Saviano.
L’ultima, in ordine cronologico, è proprio il decreto Caivano che parla della nomina di un commissario straordinario – successiva alla sua entrata in vigore, quindi tra circa sessanta giorni, qualora dovesse tramutarsi in legge – nella persona di Fabio Ciciliano, dirigente medico della polizia di Stato che a sua volta dovrà adottare un piano di interventi infrastrutturali e di riqualificazione del territorio di concerto con la Presidenza del Consiglio. Ma è di questo (o solo di questo) che ha bisogno Caivano? Di assumere quindici nuovi membri del corpo di polizia locale, di altri uomini inviati a presidiare le strade di provincia per rinascere? Basta?
A rispondere ha pensato il maxiblitz dei giorni scorsi quando, per citare ancora Saviano, il governo ha promesso una bonifica e invece 400 uomini, tra poliziotti, carabinieri e guardia di finanza, hanno trovato appartamenti vuoti e sequestrato una quantità di denaro che per una piazza di spaccio sono solo pochi spiccioli. La camorra ha avuto tutto il tempo di mettere al sicuro ciò che non doveva essere trovato. Risultato? Qualche pregiudicato andrà sotto processo, terranno dei blindati in strada per un po’ di tempo fingendo di credere che possano funzionare da deterrente… E poi, come sempre, il nulla. Ma più di qualcosa nelle stesse ore, e nelle stesse strade, si è mosso. Ha sparato, ha incendiato, ha gambizzato.
Caivano, dunque, va militarizzata? A Caivano, con queste operazioni (che non sono le prime e non saranno le ultime), è mai cambiato qualcosa? Per quanto bonificare sia un verbo tanto caro alle destre, persino Meloni conosce la risposta. E la conosceva già ai tempi del Ministero della Gioventù quando mai, nemmeno per sbaglio, ha citato questa periferia. La conosce il Presidente De Luca che vuole prendere i criminali casa per casa ma da tre anni, in diretta social, crede che quaggiù ci siano fratacchioni con l’anello al naso. Allo stesso modo, la conosce Matteo Salvini, il Ministro delle Infrastrutture ex Interno, che minaccia pene spietate senza averne le facoltà. Ma Caivano, come i signori citati, è carta conosciuta. È storia antica. Quella che tutti sanno e altrettanti tacciono.
Era il 1980 quando un violento terremoto distrusse l’Irpinia. Novanta secondi per un totale di 280mila sfollati. Per rispondere all’emergenza abitativa – tutt’oggi in essere – si decise così di erigere i palazzoni del Parco Verde, molti degli edifici di Scampia e Ponticelli, soltanto alcune di quelle aree che il tempo – stando a una narrazione comunque parziale e sommaria – ci avrebbe presentato come insicure, covi di criminalità e degrado, ghetti di una malavita politica che finanzia quella di strada, talvolta finendo con il diventare tutt’uno. Come a Caivano, appunto, dove nel 2019 la Corte dei Conti ha aperto un’istruttoria sui sindaci e i funzionari municipali che per anni hanno avallato danni erariali per milioni di euro e un Comune in dissesto. Come nel Parco Verde, un agglomerato di povertà, disperazione e droga.
Nato per ospitare i terremotati, conta oggi più di 6mila abitanti e una reputazione che ha portato forze dell’ordine e stampa a definirlo la più grande piazza di spaccio d’Italia, forse d’Europa. Il tasso di dispersione scolastica nel noto quartiere di Caivano è pari quasi al 50%. Uno su due dei suoi residenti non va o non è mai andato a scuola negli anni dell’obbligo, in tantissimi non hanno un’occupazione fissa o un impiego che sia riconosciuto come tale dalla legge. In molti lavorano a nero, in troppi lavorano senza alcun contributo o garanzia, in tanti al soldo dell’unica istituzione veramente vigile della zona. E non solo perché lo spaccio, qui, è principale fonte di guadagno, ma perché la camorra prospera e vigila quando anche chi non c’entra niente tace e si sta, compra in quei negozi, a quei prezzi, quelle specifiche marche; quando i commercianti, per alzare la serranda, chiudono gli occhi e aprono il portafogli; quando di sera, se serve, la luce si spegne più presto, le finestre si accostano, il traffico di motorini, mani e soldi non fa più impressione. E, se lo fa, si nasconde bene. Perché se non lo facesse, oggi tutta questa retorica su Caivano e il Parco Verde si concentrerebbe sui reali motivi di tanti soprusi e abusi, sul perché di una recidiva che a volte pare prassi. Normalità. Ma a chi converrebbe? Non a chi serve che tutto cambi perché nulla cambi.
Caivano è un sobborgo dimenticato ma non da dimenticare. Per questo non basta imbracciare altre armi per imporvisi come Stato. Non basta perché quasi 38mila abitanti ne fanno una provincia al pari di tante di un Paese che di metropoli ne conosce poche, ma di piccoli centri tanti, forse troppi per tentare, davvero, di emanciparsi. Non basta perché è sbagliato e mistificatore collocare geograficamente l’efferatezza di un omicidio o di una violenza, qualunque sia la sua natura. Equivale a deresponsabilizzare colpevoli e complici, a lavarsene ancora le mani, a voltarsi dall’altra parte, a ignorare quelli che sono i reali motivi di uno o più abusi che, invece, hanno un nome preciso.
Un nome che si riverbera a Caivano, a Palermo, ovunque in questi giorni e in questi anni, con sempre più frequenza, abbiamo provato a pronunciare sempre con l’accento sbagliato.