Sono mesi di straordinaria importanza quelli che stiamo vivendo, settimane cruciali rispetto al futuro che attende ciascun individuo in merito all’epidemia da coronavirus e, dunque, alla normalità a cui mira a tornare. Il ripristino della quotidianità e della socialità come intese fino al dilagare della pandemia affida le proprie sorti alla capacità degli Stati di vaccinare la fetta più ampia della popolazione nel minor tempo possibile. E, in tal senso, l’Unione Europea è chiamata a fornire risposte che ancora non è stata in grado di garantire.
Quella che era nata nel disegno di un alter ego agli Stati Uniti d’America non è mai stata capace di raggiungere la compattezza che si auspicava il giorno della sua fondazione. Il risultato dell’adesione al Parlamento di Bruxelles di ben ventisette Paesi (come oggi è composto) si è spesso mostrato come un’accozzaglia di governi egoisti, leader capaci di intese solo in favore del libero mercato o, per meglio dire, dell’economia liberista, un terreno di caccia per banche e società multinazionali, il tutto a garanzia delle finanze delle sole Parigi e Berlino. Insomma, l’Unione Europea non ha mai impensierito lo strapotere dello zio Sam sullo scacchiere mondiale, anzi, la bandiera blustellata si è spesso trovata a rincorrere anche la Cina e, ora, gli Emirati Arabi.
Dagli accordi economici sulle principali rotte internazionali, passando per l’autorevolezza da imporre ai suoi costituenti, fino – per arrivare a oggi – alla somministrazione dei vaccini contro il COVID-19, l’UE dimostra il fallimento di un progetto a tratti fallimentare. Nella classifica degli Stati più efficienti nella lotta al virus, l’Unione Europea si colloca soltanto sul gradino più basso del podio (tutti i 27 Paesi unitamente), proprio dietro Stati Uniti d’America e Cina, e incredibilmente insidiata dal Regno Unito – fresco di Brexit – che da solo si è già dimostrato in grado di somministrare soltanto 10 milioni di dosi in meno di tutta l’UE messa assieme (32 mln UE/20 mln UK).
Tradotto, gli Stati dell’Unione sono in gravissimo ritardo rispetto a tutte le principali economie mondiali, un’incapacità di contrattazione e imposizione della propria autorità nei riguardi delle case farmaceutiche che si fotografa in un drammatico -0.4% di PIL perso ogni ventiquattrore, un ammontare di circa 90 miliardi di euro che l’Europa rischia di polverizzare nel 2021 (studio Euler Hermes-Allianz). Solo l’Italia – terza tra i comunitari per numero di dosi somministrate, ma solo 16esima sulla proporzione /1000 abitanti – perde 2 miliardi di euro per ogni giorno di proroga del piano vaccinale, una rincorsa a una normalità anche dal punto di vista economico-finanziario che, così, vede la luce in fondo al tunnel allontanarsi rispetto alle attese e ai proclami dello scorso dicembre.
L’inconsistenza del già lugubre progetto comunitario è stata (finalmente) scoperchiata dalla crisi innescata dal COVID che ne ha mostrato ogni punto debole e crepa. La corsa ai vaccini è, infatti, soltanto l’ultima delle débâcle di Bruxelles, con Big Pharma che, al contrario, si è mossa compatta nel favorire i migliori acquirenti (come Londra o Israele) rallentando l’approvvigionamento concordato con i Paesi dell’Unione. La questione – lo avevamo già segnalato – è un affare gigantesco, un giro mastodontico di denaro che avrebbe dovuto essere reso palese nell’interesse della popolazione comunitaria tramite la pubblicazione dei contratti d’acquisto e la divulgazione dei termini degli accordi. L’Iniziativa Cittadini Europei, sostenuta anche dall’Oxfam, No Profit On Pandemic, si batte da mesi per proteggere proprio dai rischi che, oggi, stanno invece correndo ma, come tutte le istanze che si frappongono al profitto dei giganti, non è mai stata presa sul serio dalla politica.
La conseguenza è un intero continente che aspetta e mentre aspetta perde denaro, che mentre aspetta litiga sulle misure da proporre alla gente ormai esasperata dai messaggi sempre in contraddizione, che mentre aspetta valuta se offrire lo specchietto per le allodole della monodose da estendere a più persone possibile – anche contro il parere della maggior parte degli esperti –, che mentre aspetta svela la sua identità di progetto instabile e spesso inefficace.
Come dicevamo, la corsa ai vaccini è soltanto la punta dell’iceberg dell’inadeguatezza dell’Unione Europea, e non solo rispetto al disegno iniziale, ma in assoluto. Anche sul piano delicatissimo – ma strategicamente fondamentale – degli accordi commerciali col resto del mondo, il Parlamento oggi presieduto da Ursula von der Leyen si è dimostrato non all’altezza delle proprie ambizioni. Il caso Brexit è, infatti, una ferita che ancora sanguina e non si rimargina, un taglio netto al cuore del progetto comunitario che Londra ha dimostrato di aver inferto con la ragione della propria offensiva.
Non soltanto la Gran Bretagna ha dato prova della concretezza della Corona riuscendo, non appena salutati i banchi di Bruxelles, a somministrare il vaccino contro il coronavirus a ben 20 milioni di persone (30 dosi/100 abitanti – l’Italia è ferma a 4 milioni, 7 dosi/100 abitanti), ma ha evidenziato a Bruxelles quanto la convivenza sotto la bandiera blu con le stelle dorate non fosse propedeutica per i propri affari. Ed è questo che l’Unione dovrebbe spiegare: com’è stato possibile che uno Stato a tutti gli effetti membro fino a soltanto due mesi fa abbia potuto trattare con le cause farmaceutiche così in autonomia e massacrare i vecchi compagni di banco non appena suonata la campanella del 31 dicembre?
Nella stessa direzione – e non meno grave – si colloca l’accordo di libero scambio firmato, lo scorso dicembre, tra Boris Johnson e la Turchia di Recep Erdoğan, un contratto entrato sì in vigore alla mezzanotte del nuovo anno, a Brexit ultimata dunque, ma annunciato ben due giorni prima della deadline con cui Londra ha salutato l’Unione, uno schiaffo pauroso tirato in pieno volto a Parigi quanto a Berlino, una dimostrazione di supremazia a cui nessuno ha neppure provato a mettere i bastoni tra le ruote, anzi, persino bagnata dall’accordo di addio così come voluto dal 10 di Downing Street.
A che serve, dunque, legarsi al Parlamento Europeo, dipendere dalle sue direttive, dalla propria moneta, dalle indicazioni economiche della BCE, se questo non si dimostra in grado di salvaguardare gli interessi del proprio popolo, dei suoi contribuenti? Sia chiaro, nulla abbiamo a che fare con i sovranisti che sventolano i cartelli NO EURO e minano al progetto comunitario unicamente negli interessi della propria fazione politica, anzi, noi marciamo sul fronte opposto, come vi erano Giulio Regeni (un altro figlio dimenticato da questa Europa in nome del denaro) e Antonio Megalizzi, ragazzi spinti dal desiderio di un mondo davvero libero e privo di confini, ma non solo per i pacchi di Amazon.
È adesso che l’Unione Europea deve rispondere a noi, a questi giovani, garantirci il domani promesso in cambio di debiti che il nostro futuro lo soffocano ogni giorno di più, un cappio al collo che stringe come le distanze imposte dal virus. Non si può più rimandare. La fine della pandemia coinciderà con la prossima data che segnerà il destino di quella parte del mondo che il mondo lo ha fatto, e da cui si è lasciata travolgere.