Gli Uiguri potrebbero non sopravvivere. E no, non si tratta di una mera casualità, non è colpa di un territorio inospitale, di un cataclisma o della siccità e non è neanche a causa di una guerra. Semplicemente, un’intera popolazione è vittima di uno sterminio sistemico, uno di quelli che non uccide ma impedisce comunque la sopravvivenza. Uno di quelli che qui in Europa chiameremmo genocidio, se solo ci importasse.
L’etnia degli Uiguri subisce le angherie del governo cinese da anni. La minoranza musulmana che abita la zona dello Xinjiang ha lottato per l’indipendenza per decenni e, oggi, si ritrova a combattere per la sopravvivenza. In Cina, infatti, la popolazione è vittima delle peggiori discriminazioni, dovute perlopiù alla religione, che diventa facilmente una giustificazione utile per legittimare la violazione dei diritti umani, facendo costantemente appello alla minaccia terroristica che gli Uiguri dovrebbero rappresentare. Da tempo, ormai, l’intera popolazione è attentamente controllata, i trasgressori di qualunque tipo sono rinchiusi in centri di riabilitazione molto più simili ai campi di concentramento e ci sono numerose denunce di azioni atte al lavaggio del cervello o alla sterilizzazione forzata, messa in pratica per assicurare l’estinzione dell’etnia.
Quello che gli Uiguri subiscono è stato definito un genocidio culturale, ovvero il tentativo di rieducazione e di cancellazione dell’identità culturale, politica e religiosa. Tale pratica è certamente una violazione dei diritti umani, un’evidente azione manipolativa perpetrata da un governo autoritario che tenta di controllare la popolazione in nome del regime. Eppure, l’aggettivo “culturale” che accompagna il termine “genocidio” finisce per spogliarlo del suo significato più efferato. Definirlo in questo modo rischia, in effetti, di sminuire la gravità che la parola genocidio evoca. Gli Uiguri, infatti, sono vittime di un controllo tale sulle loro vite da minare la propria libertà tanto quanto accadeva nei lager del secolo scorso. La differenza sta, forse, nel fatto che tutto ciò avviene molto lontano da noi, motivo per cui si è scelto di ignorarlo.
Il governo cinese non si limita al processo di assimilazione forzata, quello che tenta di rendere la popolazione controllabile e di annullarne l’individualità in nome del conformismo tipico dei regimi dittatoriali. E anche la reclusione senza processo né giusta causa è tutto. L’idea di sterilizzare le donne contro la propria volontà è un ottimo modo per sterminare un intero popolo, farlo estinguere senza uccidere direttamente nessuno. E, alla luce di questi fatti, è impossibile negare che si tratti di vero e proprio olocausto.
Recentemente, la comunità internazionale ha iniziato a interessarsi del problema. Dopo gli Stati Uniti, anche il Canada ha approvato una mozione che condanna e definisce come genocidio l’operato della Cina nella regione dello Xinjiang. La sanzione richiesta dal Parlamento canadese, però, riguarda lo spostamento delle prossime olimpiadi invernali, che dovrebbero svolgersi a Pechino, in un altro Paese. Dunque non ci sono, almeno per ora, provvedimenti più severi ed efficaci in vista.
In realtà, sebbene le condizioni in cui vivono gli Uiguri sono ormai conosciute e le condanne – quelle morali, almeno – sono giunte da parte di numerosi Paesi, le prese di posizione sono sempre state abbastanza blande. E anche se la definizione di genocidio delle Nazioni Unite è piuttosto ampia, questo termine è sempre stato usato con particolare parsimonia. Sarà perché è più facile credere che gli orrori del passato non possano tornare oggi, o molto più probabilmente perché si temono le conseguenze economiche e politiche che una presa di posizione più forte comporterebbe, che fino a ora la comunità internazionale si è servita di molta cautela.
La Cina, d’altronde, sta superando tutti i competitor in quanto a potenza commerciale ed è facile credere che la maggior parte dei Paesi non voglia danneggiare i rapporti con uno Stato tanto grande e tanto potente. Lo stesso Canada ha grandi interessi nel continente asiatico, con cui ha un commercio complessivo maggiore di quello che ha con Europa, Sudamerica e Africa messe insieme. Il Paese di Xi Jinping è, infatti, il più grande esportatore al mondo e il secondo importatore dopo gli Stati Uniti. La velocità con cui quello che pochi decenni fa era un’arretrata economia agricola, oggi è diventata una potenza con la quale l’Occidente intero ha bisogno di collaborare.
È probabilmente proprio per questo motivo che l’Europa mantiene ancora il silenzio radio sulla questione Uiguri. Recentemente, infatti, l’UE ha stipulato un importante accordo sugli investimenti con il Paese asiatico. Il Comprehensive Agreement on Investment è stato il risultato di sette anni di negoziati che ha lo scopo di sostituire i ventisei accordi bilaterali che fino a ora hanno amministrato, seppur con fatica, i rapporti tra Cina ed Europa. E quello degli investimenti esteri è un campo estremamente remunerativo, a cui nessuna delle due parti vuole rinunciare. È dunque per questo che la Cina, dal canto suo, continua a negare ogni accusa e a definire le condanne internazionali estranee ai reali fatti interni al Paese: la sua difesa è poco convincente, proprio perché, evidentemente, sa di non averne bisogno. O, almeno, così è sempre stato.
Intanto, si stima che siano circa un milione gli Uiguri rinchiusi nei campi di rieducazione. L’intera popolazione è costantemente sorvegliata e non è mai realmente al sicuro, perché rischia di essere trasferita in un centro detentivo in qualunque momento. In quei luoghi, le persone sono costrette ai lavori forzati, le donne sistematicamente vittime di violenza sessuale ed è da lì che provengono le testimonianze di sterilizzazione forzata. La Cina sta provando ad annientare l’identità culturale degli Uiguri e spera probabilmente di vederne l’estinzione se non, perlomeno, l’assimilazione. Indipendenza e libertà non sono diritti a cui la minoranza può appellarsi. E appare incredibile che, a queste condizioni, ancora si stenti a prendere posizioni e ad attribuire la giusta definizione a tali aberranti pratiche.
Le condizioni in cui vivono gli Uiguri e anche i fatti di Hong Kong già da tempo avrebbero dovuto destare le coscienze della comunità internazionale, che però non sembra tener conto delle questioni interne quando discute del ruolo della Cina sul mercato globale. Le stesse potenze europee hanno interessi a mantenere intatto il silenzio su quanto accade sotto l’egemonia di Pechino. Insomma, è chiaro che il rispetto dei diritti umani non può prescindere dall’economia. Tanto che si sceglie ancora di chiudere un occhio anche quando si parla di genocidio.