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“Cattive acque”: riflessioni amare dopo il bel film di Todd Haynes

Redazione di Redazione
29 Settembre 2020
in L'opinione
Tempo di lettura: 5 minuti
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Quante forme di violenza esistono? C’è la violenza individuale che tutti siamo in grado di identificare, giudicare, condannare. L’atto terroristico, l’omicidio politico che, per quanto finalizzato alla giustizia sociale almeno nella mente di chi compie il gesto estremo, ci indigna, ci spinge a manifestare il nostro rifiuto con fermezza, collettivamente. Ma esiste anche una violenza più sfuggente, sotterranea, strutturale, insita cioè nello stesso sistema di produzione, rispetto alla quale non siamo abituati alla ribellione collettiva. Non è un caso: ci viene presentato il singolo fatto come una degenerazione individuale, una scelta del singolo, e non come un requisito ricorrente, indiscutibile.

Il modello di produzione capitalistico ha questa caratteristica: realizzare il massimo profitto, costi quel che costi, riducendo allo stato di merci la natura, gli esseri viventi e gli stessi rapporti sociali, piegando tutto alle esigenze voraci e insaziabili del mercato. Gli esempi sono innumerevoli. Non c’è disastro che non sia imputabile, almeno in ultima analisi, all’uomo e alla sua sete sfrenata di profitto: alluvioni, crolli, disastri ambientali, degenerazione climatica.

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Si è scritto che il particolato atmosferico è stato la causa della velocità di propagazione del contagio da COVID; il particolato, ovvero l’effetto dell’inquinamento da combustione, allevamenti intensivi, gas tossici, eccetera. Eppure, nonostante ciò, sembra che ci appassioni di più dibattere se tutto questo – virus e misure anti-contagio – non faccia parte di una fiction finalizzata al “controllo sociale”, piuttosto che aprire una riflessione seria, profonda e collettiva sul dato (incontrovertibile) che l’ambiente, e di conseguenza la nostra salute, sono minacciati dalla produzione di ogni settore merceologico.

Sulle immagini conclusive di un film ho letto questa frase: si stima che al giorno d’oggi il 99% degli esseri umani abbia nel proprio sangue una certa percentuale di PFAS. E nello stesso film il protagonista chiede a un chimico: Qual è la conseguenza di ingerire queste sostanze chimiche, sintetiche, che nascono da una combinazione di laboratorio tra atomi di carbonio e di fluoro? La risposta del chimico è agghiacciante: È come ingerire una bottiglia di plastica.

Le particelle di tutte queste sostanze, che nel tempo hanno assunto nomi diversi, ma conservano identica la letalità, rimangono nell’organismo, si accumulano senza scampo, sono le cause dirette o indirette di malattie quali l’ipercolesterolemia, le coliti ulcerose, le malattie tiroidee, i tumori del testicolo e del rene. Gli effetti tossici più frequentemente osservati sono la restrizione della crescita fetale, il diabete, l’aumento del colesterolo e le sue conseguenze (ictus cerebrale, infarto cardiaco), l’ipertensione arteriosa, l’aumento dell’acido urico, la riduzione degli spermatozoi nel maschio, l’infertilità maschile e femminile.

Le aziende di produzione sapevano e sanno benissimo che i loro scarti industriali – gas o rifiuti solidi o sciolti nelle acque – inquinano, intossicano e possono avvelenare. Lo sapeva la Miteni in Veneto. Lo sapeva l’ILVA a Taranto, con ogni probabilità lo sa la Solvay di Spinetta Marengo ad Alessandria. E lo ha sempre saputo la Dupont, colosso chimico multinazionale. Lo hanno scritto riservatamente i “suoi” scienziati che dal 1938 studiavano il polimero la cui applicazione avrebbe rappresentato la gallina dalle uova d’oro per l’azienda fondata a ridosso della guerra d’indipendenza americana. E lo scrivono con linguaggio paludato: li definiscono recettori delle sostanze (polveri emesse durante la lavorazione, scarti tossici da nascondere, acque scaricate a ridosso delle falde acquifere), e in realtà quei recettori sono gli esseri umani che ne potrebbero essere danneggiati.

Lo scrivono e lo tengono segreto per decine di anni fino a quando un avvocato non si mette sulle tracce del responsabile della morte di 190 mucche in un allevamento che confina con un terreno dell’azienda a Parkersburg, in Virginia Occidentale. I bovini sono morti in situazioni mediche insolite: tumori, organi gonfi, denti completamente neri. L’avvocato è Robert Bilott. Il film è Cattive acque, uscito in Italia a ridosso della quarantena e adesso disponibile solo nella cineteca di Sky. Ed è proprio l’avvocato, che nel film è interpretato da Mark Ruffalo, convinto e tenace ambientalista al punto da voler essere fra i produttori del film, che in un drammatico confronto con il CEO della Dupont gli mostra la foto di un bambino con un’unica narice e con gli occhi spostati: questo è uno dei vostri “recettori”.

Violenza, cinismo, utilizzo spregiudicato di ogni mezzo legale e non, compresa la corruzione dei politici e degli organismi preposti alla sorveglianza e al controllo ambientale: questo è l’armamentario messo in campo dalla Dupont. Si tratta del caso isolato di un “capitalista” senza scrupoli? O è piuttosto il prezzo, l’effetto collaterale, della modernità? Il polimero che produce quei danni è usato per la produzione del Teflon e di tutte le pentole antiaderenti: chi di noi non ne ha mai usata una? Bene, i PFAS che inquinano le falde acquifere di una zona enorme del Veneto, fra le province di Padova, Verona e Vicenza, sono presenti nelle pentole e in tutte gli abiti, gli oggetti e gli accessori idro-repellenti. C’è qualcuno che non conosce il Gore Tex?

Il film – che dovrebbe essere proiettato nelle scuole – mostra in modo inequivocabile che tutto “si tiene”, perché i profitti del solo Teflon, un miliardo di dollari a settimana, sono in grado di far magicamente innalzare i limiti dei rifiuti consentiti dalla legge, di far saltare gli accordi, di far durare la causa legale quasi vent’anni, di non mollare nemmeno di fronte all’evidenza più drammaticamente lampante dei dolori, dei lutti, dei bambini deturpati, delle intere generazioni danneggiate. E mostra che non si tratta del singolo capitalista, perché la filiera dei danni industriali è sempre più lunga, e la stessa class-action intentata contro la Dupont adesso punta ad altre aziende, come l’altro colosso americano, la 3M.

Diamo onore al merito all’avvocato Bilott che continua la sua battaglia per disvelare i danni delle sostanze perfluoroalchiliche e per sostenere i movimenti di protesta: è venuto anche in Italia, ospite del movimento NO PFAS del Veneto. Diamo il giusto riconoscimento a Nathaniel Rich, autore dell’articolo apparso sul New York Times Magazine dal quale è tratta la sceneggiatura del film: L’avvocato che è diventato il peggior incubo notturno della Dupont. Ma, soprattutto, facciamo del nostro meglio per conoscere, sostenere, condividere e pubblicizzare tutte le iniziative e le attività dei movimenti che intraprendono il percorso di denuncia e di lotta contro chi, per il profitto, attenta alla vita. Alla fine, però, una domanda mi rimane in testa: basteranno dieci, cento, mille cause civili a risarcire davvero i dolori e i lutti subiti e a fermare la mano del mostro?

Un contributo a cura di Pierluigi Del Pinto

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