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Catcalling: quando una molestia si traveste da innocuo complimento

Alessandra Trifari di Alessandra Trifari
3 Giugno 2021
in Rubriche
Tempo di lettura: 4 minuti
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Negli ultimi tempi si sta facendo sempre più attenzione ai temi riguardanti l’inclusività, la parità e lo sradicamento degli stereotipi di genere grazie a un forte attivismo di movimenti e associazioni. Soprattutto, coniando nuovi termini per conoscere e analizzare fenomeni in realtà vecchi come il mondo e duri a morire nella nostra cultura. Si parla, in questo specifico caso, del catcalling. Nonostante il vocabolo sia ormai abbastanza di largo uso, c’è ancora chi ammette di non conoscerne appieno il significato. Cerchiamo quindi di fare chiarezza.

Si chiama catcalling – anche detto street harassment –quell’atteggiamento che ha luogo per strada e che vede il compiersi di varie molestie come fischi, suoni di clacson, espressioni o gesti sessisti, discriminatori e offensivi di qualsiasi genere. Letteralmente, il termine fa riferimento al richiamo che viene fatto al gatto per attirarlo a sé. Sebbene possa riguardare chiunque, viene essenzialmente effettuato da parte di uomini nei confronti delle donne.

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Le ultime ricerche ISTAT ci informano che l’84% delle donne ha subito molestie da strada prima dei 17 anni e il fenomeno non accenna affatto a diminuire. A oggi, per fortuna, diverse associazioni si occupano della cosa – ad esempio, l’organizzazione no profit Stop Street Harrasment –, mentre in Francia, nel 2018, è stata finalmente approvata la legge contro le violenze sessiste e, appunto, gli insulti da strada.

In primo luogo, occorre precisare ulteriormente il concetto: in molti, quando parlano di catcalling, parlano di complimenti. Falso. Bisogna chiamare le cose con il loro nome: il catcalling non è fare dei complimenti, il catcalling è una molestia e, più nello specifico, una molestia di tipo verbale. Qual è, dunque, la linea che separa un apprezzamento da una molestia verbale? Ci si domanda, a questo punto, perché una donna non debba sentirsi lusingata se per strada un emerito sconosciuto le dice «Hey, che bambola!». La risposta è semplice: è il contesto che fa la differenza.

Il punto centrale è chiedersi cosa prova l’altra persona. Le risposte delle donne vittime di catcalling a cui è stato chiesto come si sentissero racchiudono sempre uno standard preciso di sentimenti: rabbia, frustrazione, inutilità e senso di colpa. Non conoscendo la persona ed essendo quasi sempre fisicamente in svantaggio, preferiscono tacere per paura di incappare in sgradevoli conseguenze, alimentando perciò il senso di impotenza. Una donna, inoltre, finisce inevitabilmente per colpevolizzarsi, chiedendosi se forse non sarebbe stato meglio evitare quel vestito scollato o quelle scarpe col tacco. Per finire, la ciliegina sulla torta è quella frase spesso detta con l’intenzione di sdrammatizzare, senza accorgersi di star facendo invece molto più danno: «Sei esagerata».

Un principio che andrebbe stampato a caratteri cubitali nelle menti di ogni individuo è che le emozioni non si giudicano. Se una persona prova una certa sensazione, non l’ha deciso lei, la prova e basta, e dire che sta esagerando non la aiuterà affatto, anzi otterrà il risultato che questa, oltre a continuare a vivere nel disagio, si sentirà anche sbagliata rispetto a uno standard di normalità che, guarda caso, è lo standard di chi le sta parlando. E poi, sul serio, se quasi tutte le donne dichiarano di sentirsi in un certo modo, difficilmente può trattarsi di una percezione personale.

Dietro a gesti considerati da molti “superficiali”, il catcalling agisce subdolamente e condiziona enormemente la vita delle vittime, che non si sentono più libere e padrone di dove vanno e cosa indossano. Ma non è il vestito in sé il problema, semplicemente è il loro sesso. Gli abiti, il luogo, i canoni estetici, il volerci provare poco c’entrano: si tratta di affermazione di potere. Non è un caso che le più colpite dal catcalling siano proprio le donne, poiché da sempre sono in una posizione di svantaggio rispetto all’uomo che invece mantiene il potere e continua a esercitarlo solo perché si sente in diritto di farlo. Perché sa che non ci saranno conseguenze. È questo il motivo per cui un atteggiamento del genere può apparire molesto, se quello che si percepisce non è «Hey, che bambola!» ma «Hey, ti dico certe cose perché posso e tu non puoi fare nulla per evitarlo». Senza contare che non ci si limita ad apprezzamenti estetici e che, in molti casi, espressioni e gesti sono di gran lunga più osceni.

È il frutto di una cultura dello stupro ancora troppo radicata, di una società malata che continua a vedere la donna come un bell’oggetto e basta. Per l’appunto, difficilmente il catcalling avviene in presenza di uno o più uomini che accompagnano la ragazza, ma di una o più ragazze sì. Questo perché non solo si teme la reazione fisica di un altro uomo, ma anche perché vi è una sorta di “rispetto” per cui quella potrebbe essere la donna di un altro.

Forse, è il caso di smetterla con questa concezione che una donna vada rispettata solo nell’immaginario che possa essere la madre, la figlia, la sorella, la fidanzata di qualcuno. Io, il rispetto, lo pretendo in quanto persona.

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Alessandra Trifari

Classe 1991. Dottoressa in storia dell'arte e disegnatrice. Scrive da sempre e la sua mente viaggia tra arte, cinema, musica e parità di genere. Dei due sentieri, sceglierà sempre il meno battuto.

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