Da quando ho memoria, Silvio Berlusconi c’è. Presenza troppo ingombrante per scorgerla lì sullo sfondo del tempo che scorre e, magari, non farci caso a ogni costo, così invadente, così persino esagerata. Silvio Berlusconi era il volto della tv che offriva i cartoni animati ai miei pomeriggi, l’immagine dello sport più popolare alla domenica, la voce tonante della seconda serata, il nero su bianco del giornale che comprava il nonno ogni mattina. Silvio Berlusconi era ovunque.
La notizia della sua morte, ieri, 11 giugno, è già storia – come abbiamo scritto sui nostri canali social – la scomparsa di un uomo che più di altri ha condizionato e riscritto il passato, il presente e il futuro di questo Paese negli ultimi trent’anni, forse persino dal dopoguerra, avvelenando la democrazia, piegando la legge e le istituzioni al suo volere. Silvio Berlusconi ha rappresentato la sintesi dell’italiano medio, per questo, oggi, l’Italia non sa immaginarsi un Paese in alcun modo diverso.
Il suo fare, la sua dialettica, il proprio modo di proporre impresa e persino i propri governi hanno inciso in maniera netta e – forse – irreparabile tanto sullo Stato politico quanto su quello sociale italiano. Con il suo modo di intendere il Palazzo come qualcosa da adoperare a proprio uso e consumo ha forgiato l’opinione pubblica e il costume nazionale a sua immagine e somiglianza: vecchio, opportunista, misogino, sessista, camaleontico, volgare, qualunquista, demenziale, banale.
Mentre l’Europa guardava – seppur con fatica – al futuro, la presenza di Silvio Berlusconi ha contributo alla stagnazione del Paese, rimasto impantanato nello status quo degli anni che hanno rappresentato la sua discesa in campo, quando con una battuta di pessimo gusto l’ex Cavaliere poteva cancellare ogni cosa.
Ha cancellato, a quel modo, gli accordi con Cosa Nostra (dimostrati nella sentenza contro il co-fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa), la condanna del 2013 per frode fiscale, i condoni fiscali per le sue aziende, le leggi Cirelli e Alfano con cui intralciava il percorso che la giustizia tentava di fare nei suoi riguardi… Eppure, il curriculum di Berlusconi non ha mai rappresentato un problema.
Il quattro volte Presidente del Consiglio dei Ministri riusciva, semmai, a far leva sul suo elettorato proprio grazie all’invidia di cui accusava i suoi detrattori, tra cui – guarda caso – si annoveravano perlopiù avversari politici, giudici e giornalisti. Berlusconi è stato nemico assoluto dell’informazione libera, con le sue televisioni, il possesso che deteneva di una larga fetta dell’editoria del Paese, con i provvedimenti a uso e consumo della sua leadership, di cui resterà celebre l’editto bulgaro che segnò la cacciata di Biagi, Santoro e Luttazzi dalla televisione di Stato.
Di quello stesso processo fa parte la sua normalizzazione del fascismo. Silvio Berlusconi è stato il primo, grande populista italiano, europeo e mondiale. Le reti Mediaset – con i suoi amici, veline, e uomini e donne – hanno contribuito a plasmare quel tipo di opinione pubblica a cui non importa sapere ma che è bravissima a giudicare, la pancia, l’istinto che ha rappresentato il nocciolo duro del suo elettorato.
Berlusconi non ha solo modellato l’Italia, l’ha usata. In queste ore si susseguono da più parti coccodrilli e frasi di circostanza, cordogli impensabili di avversari politici che, in verità, con e del caimano (nel celebre dipinto di Nanni Moretti) hanno fatto patti e seguito i passi, ma non sarà il nostro caso. Non fingeremo di aver dimenticato. Mentre l’Italia, grazie a una legge di Bettino Craxi del 1987, offrirà a Silvio Berlusconi i funerali di Stato, e addirittura dichiara lutto nazionale, i colleghi esteri ricordano gli scandali, il populismo, le inchieste giudiziarie, e noi seguiremo quest’ultimo esempio di democrazia anziché quello che l’ex Premier ha tentato di venderci per tutta una vita.
Ieri è scomparso un uomo, ma non il berlusconismo e ciò che ancora rappresenta. D’altronde, questo voleva zio Silvio: dimenticare tutto con uno scherzo, una passata di panno dove sedevano i guastafeste per toglierne l’ombra e occuparne, giocondo, il posto, normalizzare tutto quanto non fosse normale, la banalizzazione di ogni battaglia.