Il 13 giugno 1888 nasceva a Lisbona Fernando António Nogueira Pessoa, conosciuto semplicemente come Fernando Pessoa. Il critico Harold Bloom lo definì il poeta più importante del XX secolo insieme a Pablo Neruda, inconfondibile figura con occhiali tondi e cappello scuro a falda sollevata, cravatta e papillon.
Incredibilmente, in vita pubblicò solo due libri (se si esclude Mensagem, una raccolta poetica del 1934, anno precedente alla sua morte): Antinous and 35 Sonnets e English Poems I-II e III, in lingua inglese e non portoghese, perché crebbe a Durban, in Sudafrica, ricevendo così un’istruzione di stampo britannico. Tutto il resto della sua produzione letteraria (senza considerare gli scritti pubblicati su riviste) verrà alla luce postumo, incluso uno dei testi più conosciuti di prosa portoghese modernista, Il libro dell’inquietudine.
Ciò che caratterizza Pessoa, oltre al suo genio e al suo peculiare animo malinconico, è la creazione – quasi fisica – di tantissimi eteronimi. Un eteronimo si distingue dallo pseudonimo perché quest’ultimo sostituisce di fatto il vero nome dell’autore, mentre il primo rappresenta una sfaccettatura di carattere, un modo di pensare, uno specifico volto, una sorta di alter ego ben caratterizzato e autonomo rispetto al suo “ideatore”. Così Ricardo Reis, Álvaro De Campos, Alberto Caeiro, Bernando Soares sono facce di un dado unico che porta il nome di Fernando Pessoa.
Come sostiene la Prof.ssa Luciana Stegagno Picchio, considerata la più importante studiosa vivente di lingua portoghese, gli eteronimi di Pessoa sono tutti personaggi fortemente delineati e caratterizzati; basta leggere la sua celebre lettera scritta ad Adolfo Casais Monteiro, in cui racconta il giorno della loro nascita. A ognuno di loro attribuisce una faccia, una scheda anagrafica, un lavoro, un segno zodiacale. Ricardo Reis è un po’ più basso di lui ed è un medico espatriato; Álvaro de Campos è un ingegnere, il poeta della modernità portoghese; Bernardo Soares è un aiuto contabile in una ditta di tessuti che ama scrivere il suo diario utilizzando solo prosa, con gli occhi rivolti verso il cielo di Lisbona; Alberto Caeiro è il «maestro di tutti», un poeta bucolico, che spiega con la sua poesia la ricerca dell’essenzialità.
L’autore partorì anche eteronimi non portoghesi: Alexander Search e Charles Robert Anon che “gli scrivevano” poesie in inglese, e un unico eteronimo francese, Jean Seul, che si occupava per lui di saggi satirici. I molti altri alter ego includevano anche traduttori, scrittori di racconti, un astrologo, un filosofo, persino un frate e un nobile infelice che si suicidò. C’era anche un personaggio femminile: una donna gobba di nome Maria José, impotentemente innamorata di un operaio metallurgico che passava ogni giorno sotto la finestra davanti alla quale lei si sedeva, sognando.
Forse, come conseguenza del dar voce a ognuno di essi, Pessoa (che non aveva tutta questa fretta di pubblicare) lasciò ai posteri un baule colmo di oltre venticinquemila fogli manoscritti di poesia, prosa, opere teatrali, filosofia, critica, traduzioni, teoria linguistica, scritti politici, oroscopi e altri testi assortiti, variamente battuti a macchina, scritti a mano o scarabocchiati in portoghese, inglese e francese. Pessoa scrisse su quaderni, su fogli sciolti, sul retro di lettere, pubblicità e volantini, sulla carta intestata delle aziende per cui lavorava e dei caffè che frequentava, su buste, su ritagli di carta e a margine dei suoi stessi testi precedenti. A complicare la decodifica di questi scritti, resta il fatto che fossero firmati dai suoi eteronimi.
Perché l’autore sentiva il bisogno di affidare i suoi pensieri a questi doppelgänger letterari? Forse la spiegazione sta nella sua ossessione per la solitudine e, allo stesso tempo, per la moltitudine, in accordo con la frattura dell’io tipica del Novecento: se prendiamo in esame Il libro dell’inquietudine (scritto dal suo eteronimo Bernardo Soares) ci rendiamo conto di quanto questo sia sostanzialmente un testo di autofiction. Esso prende come punto di riferimento la vita di Bernardo/Fernando – un impiegatuccio dalla quotidianità scialba, indolente e asociale, dubbioso di se stesso e scarsamente fortunato con le donne – dilatandola in una ricerca più ampia che esplora l’assenza radicale di autostima insieme a un’inquietudine profonda, senza disdegnare però lussureggianti descrizioni di Lisbona e appassionanti ginnastiche mentali più “allegre”, di solito ritrattate o rinnegate entro la fine dell’opera. A un certo punto, Bernardo/Fernando definisce ciò che è veramente io un punto centrale puramente geometrico: il nulla attorno al quale tutto gira, che esiste solo perché possa girare, che è un centro solo perché ogni cerchio ne ha uno.
Sbaglieremmo però nel credere che Pessoa sia stato solo un malinconico. Influenzato dallo zio Manuel Gualdino da Cunha (ne parla Richard Zenith, scrittore e traduttore della produzione pessoana, nella sua biografia a Pessoa) che amava raccontare storie di fantasia al nipote – notizie da paesi inesistenti, guerre in Amazzonia tra coleotteri e zanzare, consoli portoghesi immaginari e drammi a puntate – il giovane Pessoa imparò a dar fuoco all’immaginazione.
Fu produttore di un giornale di barzellette che si chiamava The Tatler; intrecciò una relazione estremamente passionale, lunga e tormentata con una donna, Ophélia Queiroz (sfatando così il mito di un Pessoa “sfigato e nerd”) testimoniata da molte lettere d’amore in cui la chiamava puerilmente con nomignoli come bebezinha, Ophélinha, amorzinho (Adelphi ha pubblicato Lettere alla fidanzata nel 1988); partecipò a concorsi di enigmistica con un suo eteronimo di nome Tagus; avviò una società cinematografica e un college per corrispondenza chiamato Athena, dedicato alla resurrezione del paganesimo greco nel mondo moderno; propose giochi da tavolo da lui inventati a produttori inglesi.
Quello che emerge è, su tutte, la capacità (o l’impossibilità, direbbero alcuni) di Pessoa di vivere gran parte della sua vita mentale ed emotiva su un piano immaginario, letterario, e di spersonalizzare ciascuna delle sue qualità e dei suoi impulsi in diversi sé. Sono il palcoscenico nudo dove vari attori recitano varie commedie, scrive ne Il libro dell’inquietudine, e questi attori, pur essendo partoriti dalla fantasia, riuscivano a essere davvero tangibili, tanto che un altro grande della letteratura, José Saramago, credette nell’esistenza di un poeta che si chiamava Ricarco Reis (uno degli eteronimi più importanti di Pessoa), salvo scoprire solo successivamente che si trattava di una persona difatti inesistente.
Esattamente a centotrentacinque anni dalla sua nascita, possiamo dire che Pessoa è stato un profondo interprete di un sentimento tanto vivido ai suoi tempi quanto nei nostri: l’irrequietezza. Forse è per questo che lo amiamo, nonostante la sua produzione non sia ancora del tutto pubblicata: perché nella sua figura timida, riservata ma incredibilmente sfaccettata, possiamo trovare noi stessi, possiamo dare un nome a ciò che ci tormenta, a ciò che ci scolla dalla realtà per trasportarci in un mondo “altro”, più bello, più aderente ai nostri desideri.
Pirandello direbbe uno, nessuno e centomila. Pessoa non l’ha solo detto, ma l’ha anche fatto.