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Amministrative 2021, una scoppola alla politica: esulta il PD, ma vince l’astensionismo

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
5 Ottobre 2021
in Il Fatto
Tempo di lettura: 5 minuti
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«Ci siamo presi una bella scoppola»: sintetizza così Maurizio Lupi le Amministrative 2021. E, forse, in via del tutto inaspettata, offre l’analisi più lucida delle Comunali appena conclusesi. Il Presidente di Noi con l’Italia dedica la sua disamina al centrodestra ma, in realtà, un buon osservatore non può non prendere le sue parole in prestito per riassumere quelle che sono state le tanto attese elezioni di ottobre: un fallimento della politica.

Dalla recente tornata elettorale, infatti, escono tutti sconfitti. Anche i vincitori. I dati relativi all’affluenza registrano il record peggiore di sempre: solo il 54.69% degli aventi diritto si è recato alle urne. Dal 2010 a oggi, l’affluenza minore si era registrata nel 2017, attestandosi al 60.07%. Il trend negativo ha riguardato tutte le principali città: a Roma i votanti sono stati il 48.83% (in calo di oltre 8 punti rispetto alle ultime elezioni), a Torino il 48% (dato peggiore della storia cittadina), a Napoli il 47.19% (in calo rispetto alle Amministrative 2016, ma in aumento rispetto alle Regionali dello scorso anno, quando a votare fu il 46.1% degli aventi diritto). Infine Milano, con l’affluenza più bassa di sempre (47.6%).

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Anche l’Emilia-Romagna, dove si è votato per il rinnovo di quarantotto amministrazioni, ha registrato un netto calo rispetto a cinque anni fa (-6.54 punti) per un totale del 54.81% degli aventi diritto. Meglio, comunque, del 2014, quando la partecipazione sprofondò al 37.67% e Stefano Bonaccini fu eletto al primo mandato.

Le Amministrative 2021, dunque, sono una bella scoppola alla politica. E una grande sconfitta della democrazia. Chi ha vinto, infatti, ha vinto con la maggioranza di una minoranza. E questa, di certo, non può definirsi una vittoria. Anche da queste elezioni, dunque, esce trionfante il cosiddetto partito degli astensionisti, già compatto nelle precedenti occasioni, eppure mai preso in considerazione dagli aspiranti o dai sedicenti leader di questi anni bui. A essere in crisi è, quindi, la rappresentanza politica, di conseguenza la democrazia che si fa sempre più blanda, che muta la sua forma e cerca nuovi canali di espressione.

Basti pensare alle recenti raccolte firme – quella per l’eutanasia e quella per la legalizzazione della cannabis – che hanno significato milioni di adesioni, per la prima volta pervenute anche online, e che, forse, daranno vita a referendum fino a pochi mesi fa insperati. Nel processo di digitalizzazione di ogni aspetto delle nostre vite, dunque, anche l’azione democratica rischia di essere demandata al web, lontana dalle piazze e, soprattutto, lontana dalle urne. In ognuna delle grandi città, in effetti, un elettore su due ha scelto di non scegliere, manifestando così la sua insofferenza, la sensazione di non sentirsi rappresentato. Il deficit – i dati parlano chiaro – ha riguardato l’intero elettorato, sia quello di destra sia quello di sinistra, entrambi affatto motivati ad apporre una x sulle schede loro proposte.

Da queste Amministrative, allora, non esce alcun leader del presente, tantomeno del futuro. Tutt’altro. Arriva chiaro il messaggio che a mancare è la classe dirigente, la fiducia da riservarle. Niente di così imprevedibile nel Paese che in appena dieci anni si è affidato ai tecnici – sbagliando – quando i partiti, la politica, non sono stati in grado di indicare una via, di mettere da parte gli egoismi personali per il bene della comunità. Ecco che, allora, la scoppola è tale per tutti, per qualsiasi cittadino, votante o meno. È scoppola per l’intero Stivale, frammentato nelle sue disuguaglianze, siano esse sociali o politiche; stanco nel suo immobilismo; muto nella sua afonia. Esattamente quella che anche in queste ore di commento ai risultati elettorali, vincitori, vinti e informazione fingono di non sentire. Soprattutto i primi.

A volerne indicare uno, trainato dal Partito Democratico, è il centrosinistra a fare festa. Al contrario del 2016, infatti, la coalizione si è imposta in tutte le grandi città già al primo turno, a esclusione di Roma e Torino, dove la partita resta aperta per i ballottaggi: Sala si è confermato a Milano, Lepore e Manfredi hanno sbancato a Bologna e Napoli. A commentare il risultato, ovviamente, è stato Enrico Letta che ha parlato di unità del Paese – dimenticando, forse, che le Regioni sono per la maggiore in mano al centrodestra – e sostenendo che questi risultati rafforzino il governo Draghi e la voglia di uscire dalla pandemia. Il Segretario del PD, infatti, ha individuato nel green pass e nelle riaperture due importanti motivazioni per l’affermazione del centrosinistra, rivendicando – «ce ne siamo finalmente riappropriati» – quella sicurezza e quella libertà su cui le opposizioni hanno costruito tutto il loro credo politico. Come se, poi, entrambi i temi fossero talmente banali da finire lì, tra una certificazione verde e il diritto di andare al ristorante.

Letta, che ha parlato di sintonia con il Paese, ha dedicato, però, il suo discorso al centrodestra, così attento a riaprire la campagna elettorale e poco a parlare di progetti, programmi, di azioni da mettere in campo. Non basta, infatti, citare macrotemi quali quelli sopraindicati per definire i prossimi passi, tantomeno citare lavoro, giovani, salute, prossimità, sostenibilità e cultura – argomenti ben poco presenti nelle settimane precedenti al voto – per dimostrare di avere un’idea, per rilanciare le città in oggetto e il Paese tutto. Non è mancato, infine, l’endorsement all’Europa – «L’Italia oggi è ancora più europea. L’Europa è il nostro punto di riferimento» – e a Carlo Calenda, la vera sorpresa (forse al pari di Virginia Raggi) di queste elezioni: «Le nostre strade dovranno per forza convergere. Il mio compito è convincere lui e tanti altri: unità e convergenza sono l’unica soluzione per una coalizione di centrosinistra europea, democratica e progressista».

Non così dissimile, a qualche chilometro di distanza, il discorso di riconferma di Beppe Sala che, quasi sorvolando su Milano – «prossimi passi uscire dalla pandemia, cambiare profilo della città, prepararsi alle Olimpiadi» – non ha perso tempo per attaccare l’opposizione: «La destra è forte finché non la guardi da vicino». Insomma, nonostante il risultato – nel suo caso storico per due motivi, l’astensionismo e la vittoria mai ottenuta dal centrosinistra al primo turno nel capoluogo lombardo –, la sensazione è che Sala e la coalizione tutta non siano capaci di parlare alla gente, all’elettorato e, peggio, a chi non li sostiene. A livello locale, forse, ancora di più: un sindaco è il sindaco di tutti, è il sindaco di ogni cittadino, e a tutti deve saper parlare, a tutti deve saper dare ascolto. Perché se il centrodestra, come ha dichiarato Letta, ha sbagliato campagna elettorale, il centrosinistra – che pure ha sbagliato campagna elettorale – sta sbagliando, adesso, ad analizzare il voto. A porsi domande e trovare risposte.

L’opposizione, dal suo canto, ha parecchi nodi da sciogliere: le Amministrative nelle grandi città sono realtà da cinque anni, eppure la coalizione è arrivata impreparata, indecisa fino a poche settimane fa sui nomi e le proposte da avanzare. Nel suo caso, dunque, la scoppola è giunta da più punti di vista e, mai come oggi, ha svelato il segreto di pulcinella: il centrodestra – come il centrosinistra – non esiste, non esiste senza un, anzi il, federatore: Silvio Berlusconi. Nessuno dei suoi alleati, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, pare capace o intenzionato a tenere uniti gli elettori, entrambi troppo narcisi da cedere all’altro: i civici di convenienza – i candidati che non fossero espressioni di partito – si sono rivelati un fallimento, la risposta chiara a chi cerca una leadership di bandiera.

Le Amministrative 2021 hanno ribadito, ancora una volta, la fallibilità del Palazzo, la distanza tra le stanze dei bottoni e la gente comune, stanca ormai di differenze tra le parti che si palesano solo in campagna elettorale, quando tutto è in discussione e niente è in gioco. A questo appuntamento, l’elettorato è arrivato stufo, persino disinteressato. Così, è rimasto a casa, là dove resterà ancora quando fingeranno di chiamarlo in causa. Ma se non c’è partecipazione diretta della struttura democratica, quale futuro attende il Paese? Quale futuro può esserci per la democrazia? Il primo passo, forse, è cominciare proprio da qui, dalla scoppola. E provare a sentire dolore.

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