A me puoi dirlo (SUR) è il nuovo romanzo della scrittrice americana Catherine Lacey, già esordiente, nel 2014, con Nessuno scompare davvero, inserito tra i migliori libri dell’anno dal New Yorker.
In una cittadina del sud degli Stati Uniti d’America, una persona sconosciuta viene ritrovata addormentata tra i banchi di una chiesa e per questo soprannominata Panca (da qui il titolo originale Pew). La straniera non parla ma comprende benissimo quello che le viene detto. È giovane ma nessuno riesce a capire di che sesso sia né di che colore abbia la pelle. Non ci sono indizi che possano indicare chi sia né da dove venga.
Tutto quello che ricordo di aver sentito dire sul mio corpo smentisce qualcos’altro che mi è stato detto in proposito.
La comunità religiosa che la scopre è meravigliata e stranita da questo ritrovamento, nel piccolo paese di provincia non sono abituati a ricevere ospiti, tantomeno quelli “inaspettati”. Nonostante il turbamento iniziale, però, decide di accoglierla, in particolare una famiglia caritatevole e bigotta propone di ospitarla in casa propria. Il compito si rivelerà più arduo del previsto, non tanto perché Panca sia di carattere difficile o ribelle, ma al contrario perché, rifiutandosi di parlare, mette di fronte alla dura prova dell’ignoto l’intera cittadina.
È come se il tempo fosse altrove e quello che mi circonda non fosse il presente, bensì il futuro, un futuro possibile, mentre il presente è confinato in qualche posto che io non posso aggiungere per cui mi tocca vivere qui, in un futuro non meglio definito.
Parte da qui un carosello di avvenimenti in cui i membri della comunità, in un surreale gioco al rimbalzo, “si scambiano” Panca con la speranza di riuscire a saperne qualcosa di più. Il tutto sembra governato dall’urgenza e dalla smania di conoscere la provenienza e i dettagli della figura dal corpo indecifrabile, ma a questa urgenza corrisponde ancora un ostinato silenzio che Panca spezza solo con determinate persone che risultano essere, in parte come lei, i diversi, gli esclusi dalla cerchia più rispettabile del paese. Ai suoi silenzi faranno poi corrispondenza i racconti di vita delle persone che la ospitano e che in sua presenza sono come spronate a raccontare pezzi di sé che avrebbero altrimenti taciuto nella paura di una comunità giudicante.
Emblematico è il momento in cui Hilda, la madre “putativa” di Panca, decide di portarla dal medico per un controllo che solo apparentemente ha lo scopo, altruistico, di capirne le condizioni di salute e scoprire se sia stata vittima di violenza, ma che si rivela un modo per placare la curiosità sulla sua identità sessuale e scoprire l’eventuale presenza di malattie che potrebbe trasmettere ai membri della comunità.
Mentre mi riposavo su quel lettino, senza spogliarmi, senza indossare il camice di carta, avevo paura di essere sul punto di diventare qualcosa di sacrificale, ma io non avevo intenzione di prendere posto su quell’altare. Qualunque cosa fossi, sapevo di non appartenere a loro.
L’arrivo di Panca capita in concomitanza della preparazione del Festival del perdono, una sorta di rito a metà tra il religioso e il tribale che ha l’obiettivo catartico di autoassoluzione collettiva dei peccati. Di conseguenza, la nuova presenza viene percepita come sovversiva e spariglia le carte di una comunità che sotto la malcelata appartenenza religiosa nasconde un’anima ipocrita, razzista e classista.
A me è sempre parso – e con l’età che avanza ne sono sempre più convinto – che la gentilezza paghi. Ti dà un senso immediato di gratificazione. Mentre per quel che vedo la fede in un dio – la convinzione che la vita vera sia altrove, non qui – serve solo a legittimare la crudeltà. La gente ha bisogno di sentirsi nel giusto per togliere qualcosa al prossimo… per compiere atti violenti. E avere un dio dà quella sensazione. È come dargli le redini della crudeltà.
La percezione che si ha di questo Festival è che sia il momento più atteso dell’anno, in cui la catarsi collettiva, la confessione dei più abbietti peccati in maniera anonima, il mescolarsi dei corpi bendati, la concitazione delle voci siano l’unico modo in cui questa comunità riesca ad andare avanti un altro anno e mantenere il suo perbenismo di facciata.
Il romanzo di Catherine Lacey è una riflessione profonda sul corpo inteso come involucro dell’anima e che quindi dovrebbe rivestire un’importanza relativa ma che troppo spesso, invece, viene visto come l’unica cosa che conta. È nelle parole che Panca vorrebbe rivolgere al reverendo della comunità al quale viene affidata per un po’:
Al reverendo, se ce l’avessi fatta a parlare, avrei potuto dire soltanto che ero un essere umano proprio come lui, mi mancavano solo certe cose che lui a quanto pare riteneva indispensabili. […] Sentivo di non essere un caso isolato, che dovevano essercene stati altri, che facevo parte di un «noi», solo che non sapevo dove fossero quegli altri. Nessuno di noi era completamente solo, neanche io. Forse ci stavamo tutti cercando senza saperlo.
O ancora nelle sue riflessioni silenziose:
Se tutti i problemi umani derivassero dai nostri corpi, quelle cose precarie, più deboli o più forti, più chiare o più scure, più alte o più basse. Perché ci creavano così tanti problemi? Perché li usavamo per metterci l’uno contro l’altro? Perché pensavamo che il contenuto del corpo significa qualcosa? Perché usavamo il corpo per trarre le nostre conclusioni quando il corpo stesso è così sconclusionato, inaffidabile?
Questo romanzo è la metafora perfetta dello spaesamento che accompagna la contemporaneità. Gli attori del libro nel raccontarsi mostrano lacune e inciampi, provano a ricucire ferite causate da dolori mai sopiti. La presenza di Panca nella comunità funziona come un coltello conficcato nella carne putrescente di una società che non riesce in nessun modo ad accettare il diverso per quello che è ma pretende in tutti i modi che gli altri virino verso la categorizzazione e l’omologazione.
La scrittura è in prima persona, Catherine Lacey pone attraverso il personaggio domande scomode a cui non ritiene di dover rispondere. La sensazione che lascia è un po’ amara. La consapevolezza di un’irrimediabile solitudine a cui è destinato ogni essere umano, all’impossibilità di incontrarsi per davvero, alla difficoltà di comunicare senza necessariamente ferirsi a morte.
Un libro che pone molti interrogativi e nessuna risposta, come d’altronde dovrebbe fare tutta la letteratura che conta.
Contributo a cura di Giuseppe Carotenuto, libraio
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