Il 17 gennaio scorso è morto, a Brescia, Emanuele Severino, uno dei più grandi filosofi italiani, che dalla seconda metà del Novecento è stato un punto di riferimento fondamentale per la cultura nazionale e mondiale grazie alle sue riflessioni sul nichilismo del pensiero contemporaneo e sulla sua essenza: la follia costituita dal credere che le cose del mondo escano dal nulla e vi facciano ritorno e, di conseguenza, che l’ente sia niente. Una convinzione che, secondo Severino, rappresenta, al tempo stesso, la storia del nichilismo e quella dell’intera filosofia occidentale.
Severino nacque il 26 febbraio 1929 a Brescia – tra qualche giorno, quindi, avrebbe compiuto 91 anni – e si laureò all’Università di Pavia nel 1950 con una tesi su Heidegger e la metafisica, sotto la guida del filosofo Gustavo Bontadini, ottenendo la docenza in filosofia teoretica soltanto un anno dopo presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Dal saggio Ritornare a Parmenide, il suo lavoro si mosse dalle origini della filosofia occidentale per arrivare fino a Hegel e poi a Nietzsche e Heidegger per dare una testimonianza del destino dell’Occidente.
Da La struttura originaria (1957) a Essenza del nichilismo (1972), fino a Destino della necessità (1980) e La gloria (2001) – per citare alcune tra le più significative opere –Severino cercò di evidenziare che tutto è eterno per necessità, in opposizione alla persuasione che tutte le cose escano dal nulla e vi ritornino. La follia della tesi che ha caratterizzato la storia del pensiero filosofico occidentale è nata, affermava lo studioso, dal tentativo di cercare un rimedio al terrore che provano gli esseri umani davanti al dolore e alla morte presenti nel corso dell’esistenza, perché è anche questo il significato del termine tháuma, la “meraviglia” da cui nasce la filosofia, come diceva Aristotele.
Il contenuto dei libri pubblicati negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, in effetti, entrò presto in conflitto con la dottrina ufficiale della Chiesa cattolica. Addirittura, fu istruito un processo, su richiesta dello stesso autore, dall’ex Sant’Uffizio, che alla fine dichiarò incompatibile con il cristianesimo la filosofia del giovane docente bresciano. Il risultato dell’opposizione tra il cristianesimo e il pensiero di Severino obbligò quest’ultimo a lasciare l’Università Cattolica. Per fortuna, l’Università Cà Foscari di Venezia accolse il giovane ma già affermato filosofo, che fu tra i fondatori della Facoltà di Lettere e Filosofia, dove studiarono, tra i tanti allievi, futuri e noti pensatori italiani come Umberto Galimberti e Salvatore Natoli.
Il pensiero filosofico severiniano rimanda all’antico confronto tra la religione e la filosofia che parte dalla razionalità e, di conseguenza, rifiuta i dogmi delle verità rivelate nella sua indagine sull’essere al mondo. Insieme al mito, alla religione e alla scienza, argomentano i suoi scritti, la visione filosofica del mondo ha costruito i fondamenti teoretici del divenire, che parla del passaggio dal non essere all’essere e di nuovo al non essere. Questa convinzione dell’uomo occidentale, tuttavia, era considerata da Severino come una forma estrema del nichilismo, la sua essenza, dal momento che il divenire presuppone il non essere e dunque il nulla. Ed è una credenza tragica, che porta a esiti nefasti per la società e l’esistenza quotidiana dominata dalla sopraffazione e dalla violenza.
L’intera storia del pensiero occidentale è un tragico tentativo, insomma, di sfuggire alla paura del nulla, ma il divenire non è l’annullamento dell’essere, ci suggerisce Severino, bensì il comparire e lo scomparire dell’essere e degli enti dall’eternità. Nel descrivere questo tentativo, il filosofo mise in rilievo i contenuti filosofici profondi della tragedia attica e in particolare quella espressa dalla drammaturgia di Sofocle.
Una parte importante nella riflessione dello studioso bresciano ebbe anche la poesia e, infatti, diversi libri – Il nulla e la poesia (1990), Cosa arcana e stupenda (1997) e In viaggio con Leopardi (2015) – furono dedicati al grande poeta di Recanati, perché l’Occidente riconoscesse che la sua filosofia è la filosofia di Giacomo Leopardi, per la drammatica coerenza con la quale il poeta si esprimeva intorno alla tesi del pensiero del suo tempo storico e della cultura occidentale: l’esistenza del divenire, cioè dello scaturire dal nulla e del ritornarvi, da parte delle cose esistenti.
Il pensiero di Severino è stato anche criticato perché non dà abbastanza spazio, secondo alcuni commentatori, all’azione politica e soprattutto alla possibilità del cambiamento politico della vita sociale. Eppure, i suoi libri e la sua attiva collaborazione a riviste e giornali ci hanno lasciato un contributo importante sulla tecnica, a cui gli esseri umani si sono affidati tra i “rimedi” per sfuggire alla precarietà dell’orizzonte di senso e del mondo vitale.
La tecnica da mezzo per razionalizzare la vita individuale e collettiva si è trasformata in fine dell’azione societaria e domina il mondo, perché essa non ha altri fini che il proprio autopotenziamento infinito. Senza la sua presenza anche le grandi concezioni del mondo come il cristianesimo, il capitalismo e il socialismo, che hanno dominato, nel bene e nel male, la Storia, non avrebbero potuto disputarsi il governo delle comunità umane e quello dell’intero pianeta.