Non esistono più le periferie descritte da Pierpaolo Pasolini? In Ragazzi di vita, lo scrittore raccontava la drammatica realtà delle borgate e dei quartieri popolari. La sua penna descriveva l’innocenza selvaggia dei “ragazzi di vita”, la loro primitiva e disarmante ingenuità, la miseria dei loro legami più arcaici, lo scenario squallido delle strade, la povertà di opportunità e di pensieri, quella capacità ancestrale e diretta di aderire alle cose. Raccontava la semplicità degli ultimi, che non hanno sovrastrutture per manipolare gli altri e per nascondere i loro desideri, i loro sogni.
Oggi la mutazione culturale che è avvenuta coinvolge ogni quartiere, da quello più borghese alle zone periferiche. Sentiamo continuamente al telegiornale episodi di cronaca nera, inconcepibili ed efferati di cui sono protagonisti dei minorenni, dove si uccide per uno sguardo, per una lite al parcheggio, per un sorpasso. L’immagine mediatica delle nuove generazioni è allucinante. Sia se vivono nelle zone più degradate delle nostre metropoli, sia in quelle popolate dalla movida notturna nel centro storico della città, alcuni ragazzi diventano attori di una violenza inconcepibile, quotidianamente reiterata per le motivazioni più assurde.
Anche Walter Siti, nel suo romanzo Troppi paradisi, parla di una Roma televisiva/spettacolare, decadente e corrotta, che fa da sfondo drammatico a una generazione senza alcun ancoraggio, se non il proprio narcisismo esibizionista e anaffettivo. Siti racconta l’underground culturale di tante vite parassitarie, che girano intorno al mondo dell’illusione massmediale, con tutti i cannibalismi che ne derivano. I tratti psicologici dei protagonisti sono legati a un retroterra oscuro e patologico, ingovernabile e degradante. Ogni vicenda narrata svela un paradigma antropologico inquietante e paradossale.
La letteratura contemporanea indaga l’ineluttabile costruzione di mostri da persone considerate normali, persone comuni che diventano assassini violenti e demoniaci, senza aver prima destato alcun sospetto. Questa mutazione metropolitana rimanda al personaggio doppio di Dottor Jekyll/Mister Hyde, narrato nel romanzo di Nicola Lagioia, La città dei vivi, romanzo che sconvolge, facendoci cadere in una vertigine parossistica.
Giovani che si muovono nella loro vita come delle bombe a orologeria che potrebbero saltare in aria da un momento all’altro. La vicinanza emotiva, esasperata dalle sostanze stupefacenti e dai superalcolici non determina una reale amicizia, ma un delirio confusivo. Una coppia temporaneamente simbiotica che vive l’urgenza di scaricare su un altro corpo una violenza interiore repressa. Diventa inarrestabile il bisogno di infliggere una punizione esemplare a un terzo, oggetto casuale della loro rabbia e della loro fragilità. Una proiezione fantasmatica dove l’autopunizione per essere omosessuali diventa la rivoltella immaginaria di questo brutale assassinio.
Droga, alcol e omofobia. Ne viene fuori una narrazione terrificante che determina una condanna assoluta, diventa scrittura profetica di uno scenario moderno che non si riesce ad arrestare. Alla fine lo sfondo metropolitano fatto di immondizia e di miseria, dello squallore della periferia, dove l’abbandono è materia percepibile da tutti, rimanda al concetto di rifiuto e di rifiutato.
Lo scenario metropolitano ha ingoiato le periferie, in un continuum degradato e alienato. La famiglia diventa il contenitore malato che produce violenza sottotraccia, violenza non detta, anaffettività e legami slegati, patologia della coppia e della relazione. Famiglie borghesi e piccolo-borghesi dove il consumo di oggetti e il bisogno di distrarsi dal vuoto interiore sono l’eredità trasmessa da padre in figlio. Avere o essere, diceva Fromm, qui in queste metropoli balorde e inselvatichite da un nichilismo consumista, dove ogni comportamento viene esasperato.
I giovani devono stordirsi per non pensare e non sentire, devono procurarsi uno stato di stupidimento sensoriale, di alterata coscienza di se stessi, per non entrare in contatto con la loro parte più profonda, per non sentire il dolore del vivere, il vuoto di chi sopravvive senza una direzione. La condizione di fallimento professionale e sociale si intreccia al peso di una emarginazione sociale ed esistenziale. È proprio questo rifiuto, questo sentirsi fuori da ogni schema e da ogni gruppo che li avvicina e li disorienta e li rende complici di delitti efferati, dove il branco selvaggio crea appartenenza dentro un rituale di sangue.
La letteratura diventa mimesi narrativa, raccoglie questa realtà e la estremizza. Ciò che viene raccontato è stato realmente vissuto. Giusto citare Elena Ferrante che, nella sua famosa quadrilogia letteraria, descrive con grande accuratezza la cruenta competizione e la lotta all’ultimo sangue per scalare il successo imprenditoriale da parte dei ragazzi e delle ragazze, durante il dopoguerra a Napoli. Una narrazione assolutamente non retorica e non ideologica, dove nessun dettaglio viene enfatizzato ma si mostra con tutta la sua carica individualista e cannibale. Il boom economico degli anni Sessanta aveva sancito la trasformazione dei cittadini in consumatori e questo ha determinato sicuramente lo scollamento di una società caratterizzata dall’abilità sociale della condivisione, rafforzando solo lo scopo di accumulare beni.
Anche in Uvaspina, bellissimo romanzo di Monica Acito, la scrittrice riesce a descrivere con una prosa di grande carica immaginifica e con uno stile particolare la crudeltà patologica di una relazione intrafamiliare, dove il sadomasochismo diventa la matrice degenerativa di un legame connotato da una perversione anaffettiva a cui il lettore assiste impotente. Ragazzi capaci di farsi del male, di sostenere fino in fondo la mortificazione profonda dell’altro, del componente più fragile e indifeso. Storia di una bullizzazione crudele e spietata di famiglie che vivono un disagio sociale e culturale, una precarietà economica insostenibile.
Nessuna classe rimane esente da questo cammino retroflesso verso una identità individuale e comunitaria che si appoggia puramente all’essere soggetti consumatori, fuori da ogni adesione al principio della solidarietà. La letteratura diventa specchio di questa degenerazione epocale. Essere al margine diventa elemento di un processo di disumanizzazione complessiva.
Nel saggio L’epoca delle passioni tristi di Benasajag e Schmit, i due psicanalisti spiegano accuratamente la loro preoccupazione per il diffondersi delle patologie psichiatriche tra i giovani, legato a un malessere comune, a una tristezza che attraversa tutte le fasce sociali. Spinosa parlava di “passioni tristi”, per quel senso pervasivo di impotenza e di incertezza che porta a vivere il mondo come una minaccia, a cui si risponde ‟armandosi”. Il futuro diventa una dimensione cupa, scossa da una brutalità che si identifica con un esercizio anarchico della libertà individuale. Consumare tutto e subito, essere essenzialmente consumatori di un esterno che viene interiorizzato nel suo cliché di potenza sull’altro.
Individualismo, utilitarismo, anarchia, consumo, alterazione delle coscienze, assenza di una dimensione politica ed etica: bisogna recuperare il senso di una relazione ecologica con se stessi e con il mondo, prima che sia troppo tardi.