Ricordate? Dieci anni fa… i nostri occhi riflessi allo specchio brillavano di qualche ruga mancante, gli abiti che indossavamo – ormai così fuori moda – ce li invidiavano tutti e gli instagramer erano, ancora, potenziali fruitori del reddito di cittadinanza. I tifosi dell’Inter si facevano ritrarre con il sorriso sul volto, le loro bacheche (compresa quella del sottoscritto) si presentavano colme di sfottò verso gli amici di fede diversa. Che tempi…
È la nostalgia, straordinario, romantico sentimento che qualche illuminato – probabilmente americano – ha sfruttato per lanciare l’hashtag #10yearschallenge che, da giorni, affolla, con le sue foto confronto tra il 2009 e l’anno corrente, le bacheche di ogni social network esistente. Per ogni bambino con i brufoli che ora sfoggia la sua nuova peluria a ridosso del naso, risponde una neo-mamma che lamenta il sonno ormai perso a causa di quel figlio che un decennio or sono, quando i selfie la ritraevano tette al vento e muso a culo di gallina al sabato sera, neppure era nei più remoti pensieri. I maschietti, dal loro canto, tirano dentro quella pancia che il metabolismo della gioventù bruciava alla prima corsetta, ormai motivo di asma e principi d’infarto. Dalle star della musica pop ai divi del pallone, fino alla nostra compagna di banco, oggi fidata nutrizionista, chiunque è contagiato dalla voglia di mostrarsi com’era e com’è…
Diletta Leotta, avvenente presentatrice legata al mondo del calcio, appena ricorda la sexy giornalista che, ogni domenica, tiene incollati i tifosi d’Italia ai ritardi di DAZN, e qualche simpatico fan ha, perché no, pensato di farglielo prontamente notare nell’unica lingua che i social sembrano ormai conoscere: l’odio. Perché se è vero che sulle pagine di Facebook, Instagram, Twitter e chi più ne ha più ne metta, ogni strunzata sembra attrarre l’utente medio più di qualsiasi sensata riflessione (alzi la mano chi non ha mai condiviso il piccolo panda che con il suo starnuto spaventa la mamma, o chi non si è bagnato di una doccia gelata per combattere la SLA, anziché donare un solo euro alla ricerca – ah già, quei soldi chissà dove vanno a finire! –), l’altro aspetto caratterizzante dei popolari luoghi d’incontro virtuali è proprio la violenza verbale, quella noiosa convinzione dell’utente di potersi permettere qualsiasi invettiva nei toni e nei modi che più gli aggradano solo per il fatto di essere iscritto.
Poco importa se l’argomento di discussione sia lo sport, la politica, il costume o, semplicemente – come nel caso della Leotta –, un post privato di un qualsiasi individuo, famoso o meno che sia: la cattiveria di cui è pregno ogni commento è oramai incontrollata, comunque la si pensi, il tono utilizzato per dare peso alle proprie convinzioni tende sempre a sottolineare l’inferiorità del soggetto con cui ci si sta confrontando, svilendo di ogni possibile validità il pensiero altrui. Non si salva nessuno, il virus contagia tutti, anche chi dovrebbe dare l’esempio di un corretto utilizzo. E, invece, è proprio dai personaggi pubblici e – peggio ancora – dai rappresentanti della politica che la polemica viene alimentata nella direzione di una battaglia fratricida, uni contro gli altri. Il confronto su temi, numeri, dati, fatti concreti è ormai lasciato a poche, isolate voci dignitose, spesso professionisti della stampa o militanti di associazioni che nel proprio impegno quotidiano ancora non si arrendono alla barbarie.
E se quello appena descritto appare al lettore come uno scenario medioevale, persino apocalittico, il regista di tale set dell’orrore è la notizia falsa, le fake news, quelle di cui i social sono ormai saturi e che si diramano al ritmo di un coro da stadio, di un tormentone estivo dalle note sudamericane. Basta una didascalia, neanche troppo lavorata graficamente, che riporti la sagoma di un personaggio (spesso politico) affiancato da un testo inverosimile, ma scritto in un convincente carattere maiuscolo, e il popolo del web è lì che non aspetta altro per condividere con il mondo intero la sua sete di vendetta virtuale.
Sia ben chiaro, non c’è nulla di male nel ritrarsi più giovani di qualche anno e compararsi alla persona che siamo diventati, non è certo da condannare l’intento ludico con cui molti hanno accettato la sfida mossa dalla rete e si sono mostrati agli amici con le proprie foto a spasso nel tempo. Quello che questo articolo – volutamente provocatorio – intende sottolineare è la mancanza di umanità, di giudizio, spesso di raziocinio che il confronto sul web ha generato. I gesti presi ad esempio sono sempre più quelli violenti, l’emulazione non avviene mai verso dimostrazioni di intelligenza e buon cuore ma soltanto verso mode lesive, a volte anche verso se stessi. L’informazione è inquinata e, come un fiume, avvelena il mare in cui sfocia. E quel mare sono le nostre coscienze.
Ben vengano, dunque, le foto del lontano 2009, passino pure i gattini e Despacito. Purché non ci si fermi a quelli soltanto. In fondo, siamo noi a decidere cosa diventa virale per i social e cosa no. Ognuno di noi. Magari a cominciare da questo articolo… +++CONDIVIDI+++