Il divario tra le periferie della psiche e uno scenario che potremmo definire normale, è un divario permeabile, un fatto che trovo inquietante e promettente allo stesso tempo. È stupefacente accorgersi di quanto poco basterebbe per vivere, o per sfiorare, vite radicalmente diverse.
Nel saggio Stranieri a noi stessi (Iperborea), Rachel Aviv, giornalista del New Yorker, parte dalla sua personale esperienza d’incontro con l’anoressia a soli sei anni per poi districarsi, disarmata, in un campo minato quale la salute mentale e soprattutto, per questo viaggio, svuotando la sua valigia di ogni pregiudizio, consapevole e inconsapevole, spietato e nascosto.
Ma definire così Stranieri a noi stessi sarebbe riduttivo e, in parte, falso. Si tratta infatti di un testo che maneggia in punta di piedi gli inciampi, gli slanci, i salti, e anche l’incapacità di muoversi, i movimenti scoordinati, i momenti meno intercettabili, quelli più indefinibili, le case del vuoto, i momenti apparentemente profondamente sconnessi dalla solita percezione del sé di Ray, Bapu, Laura, Naomi, Hava e Aviv. Maneggia i confini con la delicatezza che ogni fenomeno umano dovrebbe esigere o quantomeno richiedere: con il seme del dubbio sempre presente che nutre e non infetta l’intera lettura.
Stranieri a noi stessi è un saggio che accoglie e unisce esperienze ed esseri umani anche attraverso diverse forze che non si esprimono in quanto tali, e quindi rischiando di diventare espressione di prevaricazione e sopraffazione, ma, con un movimento pieno di grazia e dolcezza, disvela e avvicina diverse parti senza mai esporre alcun pensiero di medico o paziente come verità assoluta. Non intende infatti definire, incasellare, contenere salute e malattia mentale, vuole solo descrivere i punti di vista di alcune persone, psichiatri e pazienti, non gli uni contro gli altri, ma gli uni con gli altri nel provare a comprendere insieme l’incompreso e a volte l’incomprensibile.
Troviamo allora alcuni medici e alcuni esseri umani le cui vite sono state sfiorate, toccate o tempestate da una parte oscura o sconosciuta del sé, una parte per la quale probabilmente non è sufficiente una vita per comprendere ciò che è avvenuto, eppure sarebbe bastato una goccia di pioggia o un raggio di sole a cambiare le sorti di vite irrimediabilmente colpite. O forse no?
Cos’è la salute? Cos’è la malattia? E cose c’è nell’intercapedine fra la salute e la malattia? E se i confini netti non lo fossero proprio mai? Se un passo in più o in meno determina salute e malattia, è davvero dividere e non unire l’operazione necessaria da svolgere? Dove si deposita l’essere umano quando la malattia occupa più spazio di quanto possa sopportare?
Aviv scrive: Ci sono storie che ci salvano e storie che ci intrappolano, e nel mezzo di una malattia può essere molto difficile distinguerle l’una dall’altra. Con la magia delle parole riesce a far avvertire la trappola che certe storie sanno e riescono a essere e l’euforia e lo sconforto di una salvezza immaginata, sognata, sfiorata, ma mai completamente raggiunta.
Racconta anche l’avvento degli antidepressivi, attraverso il parere degli psichiatri e i dati clinici di alcuni pazienti da loro riportati. Dunque i farmaci vengono descritti per ciò che forse sono: non angeli né diavoli, ma possibili alleati in un percorso di cura all’interno del quale non bisogna mai trascurare la paziente o il paziente in quanto essere umano con le sue diverse parti e particolarità che, come le note, compongono una musica che è la loro storia, a volte irripetibile.
Uno psichiatra non è mai il giudice, un paziente non deve mai essere sotto giudizio o peggio ancora condannato. Se cogito ergo sum, è difficile, a volte impossibile, scindere ciò che si pensa da ciò che si è. Il pensiero appare inafferrabile, la propria esistenza, la propria identità sembra inafferrabile.
Punto luce dall’inizio alla fine perché tenebra colma di evoluzione, e mai rassegnata a essere tenebra, è Hava, barca in tempesta fra anoressia e bulimia senza mai perdere la passione per il mare della vita.
Uno psichiatra, scriveva Kuhn, deve capire che non «sta interagendo con un oggetto rigido e autonomo, ma con un individuo in costante movimento e mutamento». È questa la cifra del tentativo riuscito di dare dignità a ogni frammento umano.
«Dove andiamo adesso? Parlare è facile. Dove pianto il piede a terra? Per ora sono sospesa in aria».
«Credo di essere una di quelle persone che si capisce alla perfezione da sola, eppure sono straniera a me stessa. Non sono del tutto convinta di voler essere salvata. Magari è solo perché non so bene chi sono e che tipo di persona sarò».
C’è essere umano che non si è mai sentito così, sospeso in aria e straniero a se stesso? Se le manifestazioni di ciò che sono descritti come comportamenti folli non fossero altro che reazioni possibili a dei contesti/ambienti in cui si comunica in maniera insostenibile come sosteneva il filosofo e psicologo austriaco Paul Watzlawich?
La guarigione non si riferisce a un prodotto finale o a un risultato. Non significa che l’uomo paralizzato e io siamo stati “curati”. Di fatto la nostra guarigione è contrassegnata da un’accettazione sempre più profonda dei nostri limiti. Suggerisce che «il cammino diventa la trasformazione, invece del ripristino di ciò che c’era prima».
Probabilmente l’essere umano dovrebbe ascoltare di più la vita, forse viverla senza attraversarla vuol dire anche un po’ perderla. Quindi ben venga la cura, ben venga il cammino, ben venga la trasformazione.
Questo testo dall’impatto lieve e profondo trattiene e diffonde il suo profumo con un’immagine potentissima:
Un bambino mi disse che durante i mesi a letto si era sentito come in un scatola di vetro dalle pareti fragili, immersa nelle profondità dell’oceano. Se parlava o si muoveva, avrebbe creato una vibrazione che avrebbe fatto spaccare il vetro. «L’acqua si sarebbe rovesciata dentro e mi avrebbe ucciso».
Dunque, Stranieri a noi stessi forse non vuol parlare di salute né di malattia, ammesso che siano davvero il contrario l’una dell’altra e non complementari, ma della finissima, minuscola precarietà umana che prega ogni giorno di resistere e non morire o cadere di fronte la spaventosa, terribile, inquieta grandezza e miseria dell’Universo.