Era il 28 agosto 1955 quando Emmett Till fu brutalmente assassinato. Aveva soltanto 14 anni. Abbastanza per essere picchiato, poi privato di un occhio, infine sparato e gettato nel fiume Tallahatchie, con la pala di una ginnatrice legata al collo con del filo spinato. Era arrivato a Money, in Mississippi, appena pochi giorni prima, in fuga dall’estate di Chicago per far visita ad alcuni parenti. Un ragazzino di colore che – dicono – avrebbe osato fischiare a una donna bianca.
Quando il suo corpo fu riportato in Illinois, reso riconoscibile da un anello, Mamie Till, la giovane che lo aveva salutato alla stazione non più di un paio di settimane prima, volle che la bara restasse scoperta affinché quella storia, la storia del suo bambino, riecheggiasse in America e nel mondo tutto, a testimonianza di cosa significasse essere nero in una società per bianchi. Una scelta, la sua, che rese il caso famoso in tutto il Paese, poi anche in Europa, complice le foto del cadavere pubblicate sulle pagine di Jet, il giornale afroamericano che avrebbe fatto di Emmett un’icona della stagione dei diritti civili.
Al processo furono presenti cronisti da ogni dove, ognuno impegnato nella ricerca di un dettaglio, di uno scoop, di un qualche morboso particolare che rendesse quella storia ancora più spettacolare, poco importava che di mezzo ci fosse la vita spezzata di un ragazzino. L’importante era offrire alla gente accorsa dagli stati più disparati un qualcosa di cui parlare che non fosse l’ingiusta scomparsa, che non fosse l’ingiusta sentenza cui si sarebbe inevitabilmente arrivati: gli imputati, infatti, furono tutti assolti. Bianchi come la giuria. In seguito, avrebbero ammesso la loro colpevolezza.
È con questa vicenda, con il tentativo di ricostruire la storia di Emmett Till, che si apre Scrivere per salvare una vita, il memoir di John Edgar Wideman pubblicato per la prima volta nel 2016 e arrivato in Italia lo scorso 21 gennaio nel catalogo di minimum fax. Ed è ripercorrendo il processo farsa che il testo, tradotto da Dora Di Marco, fa un ulteriore step. A due settimane dalla riunione del gran giurì per decidere se i Bryant dovessero essere processati, infatti, il padre di Emmett, Louis Till, apparve come un coniglio nero e cattivo tirato fuori da un cappello bianco e altrettanto cattivo. Un padre di colore convocato dal regno dei morti per assolvere gli uomini bianchi che avevano torturato e ucciso suo figlio con un colpo di pistola. In quei giorni, infatti, alcune informazioni contenute nel suo dossier personale, materiale riservato sul suo servizio militare in nome dello zio Sam, furono lasciate trapelare alla stampa: quell’uomo non era il soldato coraggioso che aveva dato la vita per difendere il Paese. Quell’uomo, già violento e costretto a scegliere tra la prigione e l’arruolamento, era stato impiccato il 2 luglio 1945 dall’esercito americano in Italia per stupro e omicidio. Un precedente, sino a quel momento inconfessato, sufficiente a condannare un ragazzino, a non riconoscergli lo stato di vittima, come per una sorta di eredità maligna. L’anello che Emmett portava al dito il giorno della sua morte era appartenuto a lui, a Louis Till. Un dettaglio che Wideman non riesce a dimenticare.
Questo testo non diventerà il romanzo su Emmett Till su cui ero convinto di lavorare, scrive. Tutte le parole che seguono sono il frutto del mio desiderio di trovare un qualche senso nell’oscurità americana che separa i padri di colore dai figli, un’oscurità in cui figli e padri perdono le tracce gli uni degli altri. E in quegli altri, in quell’oscurità in cui i legami si perdono, c’è anche lui, c’è il suo rapporto con un genitore che non ha conosciuto abbastanza. Le pagine che compongono il libro diventano, quindi, ricerca e memorie, immaginazione e giornalismo investigativo. La vita, i pensieri, le speculazioni di Wideman si mescolano alla ricostruzione della vita, dei pensieri, dell’assassinio – forse ingiusto – di Louis Till. L’America di oggi diventa America di ieri, poi Italia, strade, case, volti che l’uomo avrebbe incrociato prima di morire. Al suo fianco, come una telecamera che si muove veloce – a volte troppo –, lo stesso autore che pare vivere in prima persona, poi in terza, fatti e sentimenti che non conosce e che, tuttavia, riesce a fare suoi, sfidando la facile categorizzazione e persino il lettore, costretto talvolta a una lettura straniante.
Le tre sezioni che compongono Scrivere per salvare una vita non sono così distinte tra loro e, spesso, trascendono lo stesso titolo che ciascuna di esse porta – Louis Till, Il dossier, Tombe – finendo con il fondersi e confondersi, nel tentativo di analizzare i fatti che condussero alla condanna di Till. Fatti che non convincono l’autore e nemmeno chi legge: I soldati di colore che l’esercito considerava cittadini di seconda classe erano sospetti che non possedevano i diritti. Gli investigatori hanno bisogno di rispetto. La logica della legge del linciaggio meridionale ha prevalso. Tutti i maschi di colore sono colpevoli di voler stuprare le donne bianche, quindi qualsiasi soldato di colore impiccato dagli agenti non potrebbe essere innocente, arriva a scrivere Wideman dopo aver letto e riletto i documenti. Perché quei documenti, seppur originali, di originale – nella stesura – hanno ben poco: riduzioni delle riduzioni, le chiama, alludendo alla trascrizione di testimonianze italiane tradotte in inglese e firmate dalle accusatrici senza che conoscessero la lingua.
Esisteva qualcuno, vivo o morto, che si fosse mai dato la pena di leggere, senza contare i tentativi di manipolarle, le pagine del dossier Till? […] Come Emmett Till nella cassa che lo riportava a casa, dal Mississippi a Chicago, la storia di Louis Till nel dossier è sfigurata fin quasi a non essere riconoscibile. Un oggetto smarrito che è stato ritrovato e smarrito di nuovo. E che Wideman, uno dei più celebri e pluripremiati autori di colore contemporanei, non smette di cercare. Non per assolvere il condannato – di certo non un santo – ma per restituirgli il processo che non ha avuto.
Che Till abbia infranto la legge o meno, la sua esistenza è considerata un problema della legge. Louis Till è un seme del male che prima o poi germoglia spargendo altri semi del male. Till richiede un trattamento preventivo. Di qui la condanna. Quella di Wideman, quindi, diventa una riflessione sulla memoria collettiva e individuale, un trattato sulla brutalità razzista americana che coinvolge l’intera storia degli Stati Uniti, che include il suo sistema giudiziario e la legge che la governa, dagli anni della Seconda guerra mondiale – quando Eisenhower ordinò che fossero chiusi tutti i casi a danno dei soldati USA in Europa – agli anni Cinquanta, quando un ragazzino nero fu ucciso da un manipolo di bianchi americani e la democrazia a stelle e strisce non poteva permettersi scandali nel bel mezzo della Guerra Fredda.
Ma non è difficile, nella frustrazione di Wideman, scorgere una riflessione su quella che è anche la storia statunitense contemporanea, dalla più recente Charlottesville, all’indomani dell’insediamento di Donald Trump, a quell’indimenticabile I can’t breathe dello scorso maggio, gli 8 minuti e 46 secondi più lunghi del 2020.
Perché a unire ognuna di queste storie, a unire Louis ed Emmett Till a George Floyd, Eric Garner a Trayvon Martin o Michael Brown, Tamir Rice a Breonna Taylor o ad Ahmaud Arbery, c’è un unico comune denominatore: il colore della pelle. Quello che Wideman chiama reato di esistenza. Un crimine di essere cui apporre una frase che non possiamo smettere di ripetere: Black Lives Matter. Le vite nere contano. Tutte. Anche quella del soldato semplice Louis S.N.N. (senza secondo nome) Till, matricola 36392273, della 177° compagnia portuale, 379° battaglione, comando trasporti. Un assassino, forse, di certo un assassinato.