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Reato di tortura. Distintivo e manganello, chi ci difende?

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
9 Giugno 2021
in Il Fatto
Tempo di lettura: 6 minuti
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Chi glielo dice, adesso, a Stefano Cucchi che non è morto di epilessia? Chi glielo dice a Ilaria, sua sorella, che per anni si è battuta per la verità? Chi glielo dice, poi, a Federico Aldovrandi che quell’eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi per il quale ha perso la vita avrebbe un nome ben diverso? Chi glielo dice a Franco Mastrogiovanni perché lo hanno legato a un letto per più di ottanta ore fino alla morte? Alla sua famiglia chi pensa? A quelli della Diaz di Genova? E a tutti gli altri? Gli altri, tutti quelli a cui è stata raccontata una versione differente, quelli che ci hanno creduto, quelli che ne hanno provate di ogni per dimostrare l’ovvietà dei fatti. Quelli la cui memoria è stata infangata per servire alibi a qualcuno che alibi, in realtà, non aveva. Chi glielo dice a tutti loro chi è Stato?

L’Italia, dicono, è un paese di santi, poeti e navigatori. Non dicono, però, che è anche un paese di forza e polizia, ma soprattutto di mancata giustizia. Ventinove anni dopo la prima proposta, entrambe le Camere dello Stivale hanno approvato una sommaria legge sul reato di tortura che, stando ai fatti, non appare così abominevole come, in realtà, è e dovrebbe essere. Il testo adottato, infatti, addolcito nella maggior parte dei punti, è stato completamente stravolto rispetto all’originale, generando molteplici insoddisfazioni persino nei promotori che, nel corso della travagliata navetta tra i senatori e i deputati, hanno visto venire alla luce una legge del tutto nuova. A suscitare grossa amarezza, ovviamente, il cambio di rotta netto che ha reso quasi blanda, e in alcuni casi superflua, la misura stessa. Quello di tortura, infatti, da reato proprio – riferito soltanto a colui che riveste una determinata qualifica o in possesso di uno status precisato dalla norma o di un requisito necessario per la commissione dell’illecito – si è trasformato in reato comune – possibilmente commesso da chiunque – alleggerendo, dunque, il peso della figura delle forze dell’ordine, per la quale, in modo particolare e non in qualità di aggravante ma di causa principale, era nata la necessità di un provvedimento del genere. Il confronto tra i due testi parla chiaro.

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Il ddl presentato nel lontano marzo 2013 recitava così:

Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che infligge ad una persona, con qualsiasi atto, lesioni o sofferenze, fisiche o mentali, al fine di ottenere segnatamente da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o su di una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su ragioni di discriminazione, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni.

La pena è aumentata se ne deriva una lesione personale, è raddoppiata se ne deriva la morte.

Alla stessa pena soggiace il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che istiga altri alla commissione del fatto, o che si sottrae volontariamente all’impedimento del fatto, o che vi acconsente tacitamente.

Quello definitivamente approvato il 5 luglio recita, invece:

Chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni.

Il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti.

Se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà.

Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell’ergastolo.

Vien da sé, dunque, la prima sostanziale differenza tra la legge proposta e quella entrata in vigore, tra le altre cose, in completo disaccordo con la Convenzione delle Nazioni Unite, datata 1989 e sottoscritta dal nostro paese, secondo la quale il reato di tortura dovrebbe punire specificamente i casi di abuso di potere. Ma non sorprendetevi, il trattato obbliga anche gli Stati a introdurre nel proprio diritto interno lo stesso capo d’accusa. Chi quel giorno lo firmò, in Italia, probabilmente prima non aveva letto tutte le clausole. Il testo internazionale parla, poi, di trattamenti inumani o degradanti e non di più condotte come sostenuto nella normativa adesso vigente. Lo Stato italiano può torturarti una sola volta e non essere punito, per poter essere perseguiti per questo reato occorre dimostrare che la violenza si sia perpetrata in più condotte. Questo nella pratica significa che quasi nessuno potrà essere perseguito, ha sentenziato Ilaria Cucchi, presidente dell’Associazione Stefano Cucchi Onlus.

Ulteriore aspetto piuttosto discutibile, infine, è quello riferito alle conseguenze fisiche e, soprattutto, mentali. Come si può parlare di trauma psichico verificabile? Da chi, poi? E dopo quanto tempo? La prassi da lumaca della nostra giustizia la conosciamo tutti. L’arbitrarietà, anche in questo caso, prenderebbe il sopravvento.

Tra i grandi amareggiati per suddetta finta rivoluzione legislativa, Luigi Manconi, che aveva presentato il ddl nel 2013, il quale a proposito della staffetta infinita tra le parti ha dichiarato:

Ha pesato una sorta di complesso di sudditanza di quasi tutta la classe politica nei confronti delle forze di polizia, forse un senso di colpa o un sentimento di inferiorità. In ogni caso, si preferisce che i corpi di polizia restino così come sono: compatti e omogenei, gerarchicamente immobilizzati e scarsissimamente permeabili a quanto accade nella società e, di conseguenza, sempre pronti a tutelare gli interessi di quanti tra loro commettono reati, ricorrono a trattamenti inumani o degradanti, esercitano la tortura. E, invece, sarebbe interesse dello Stato democratico indurre i corpi di polizia ad autoriformarsi, a sottoporsi a un processo di verifica delle proprie convinzioni democratiche, ad acquisire consapevolezza dei rischi che quel mestiere, inevitabilmente, comporta. Ciò potrebbe anche produrre qualche crisi interna, determinare fratture ideologiche, creare confronti aspri: ma è essenziale che la stragrande maggioranza di poliziotti e carabinieri si differenzi dalle esigue minoranze che non rispettano le leggi, i diritti e le garanzie del cittadino e che spesso sono tentati da ideologie fascistoidi e razzistiche.

A fargli eco, Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia: Non è una buona legge. È carente sotto il profilo della prescrizione. Inoltre, la definizione della fattispecie è confusa e restrittiva, scritta con la preoccupazione di escludere anziché di includere in sé tutte le forme della tortura contemporanea.

Il legislatore nostrano, diciamolo, ha perso l’ennesima occasione per tutelare i cittadini, cogliendone un’altra per difendere chi indossa una divisa. Come se non l’avesse già fatto abbastanza, ha deriso chi da quella stessa è stato martoriato e, talvolta, ucciso. L’Italia si conferma un paese di destra perché, per usare una parola che va di moda negli ultimi giorni, ha perpetrato un liberticidio, staccando definitivamente la spina a un malato già terminale che vive in ciascuno di noi: la fiducia nello Stato. Anche questa volta, la speranza di poter provare un sentimento rassicurante nei confronti delle forze dell’ordine – da cui è terrificante pensare di doversi difendere – è svanita. Perché è inutile nasconderlo, in tanti, soprattutto le persone perbene, non hanno mai troppo piacere nel rapportarsi con taluni dei loro esponenti. Forse, prima di emanare nuove leggi, bisognerebbe accertarsi che queste non siano a salvaguardia di pochi ma di tutti, agenti compresi, sradicando il terrore e il potere dei manganelli, che fanno male al corpo e alla mente, incrementando gli estremismi. Guarda caso, fascisti, soprattutto. La tortura non è un malinteso, non è una condizione o un contesto specifico, è un abuso, una dichiarazione di forza da parte di chi sa di poterla esercitare. È in quanto tale che va gestita e perseguita. Non basta un distintivo, non basta una finta legge. Serve il diritto: alla tutela, alla difesa, alla difesa dal distintivo. All’umanità. Ieri era la Diaz, ma domani quale sarà la macelleria messicana?

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