Anche quando la giustizia vince, non vince davvero. Sono tre anni, ormai, che il nome di Harvey Weinstein è costantemente accompagnato da un indelebile marchio, sono tre anni che il movimento Me Too ha dato la forza alle donne di tutto il mondo di denunciare i propri carnefici, e sono tre anni che finalmente si parla di quanto abuso di potere e violenza sessuale vadano a braccetto, coniugandosi in una miscela letale che confina inevitabilmente le donne al servizio degli uomini potenti. Finalmente, dopo tre anni, la città di New York ha ospitato il processo nei confronti del più famoso predatore sessuale dei nostri tempi e, finalmente, è arrivata una sentenza, che ci rincuora un po’ sui mali del mondo, ma non ci soddisfa del tutto.
Iniziato lo scorso 6 gennaio, il processo ha visto cinque capi d’accusa nei confronti di Weinstein: uno per atti sessuali criminali, due per stupro e due per aggressione sessuale predatoria. Le donne protagoniste dell’accusa sono state solo due, l’ex assistente di produzione Miriam Haleyi e l’aspirante attrice Jessica Mann. La prima aveva accusato il produttore di averla forzata a un rapporto orale nel suo appartamento nel 2006, mentre la seconda lo aveva accusato di stupro in un hotel di Manhattan nel 2013. Le altre accuse che sono state mosse a Weinstein nel corso di questi tre anni non sono rientrate nel processo perché relative a fatti troppo lontani nel tempo o non perseguibili nella giurisdizione di New York. Ma, per avvalorare le testimonianze delle due vittime, sono state ascoltate altre quattro donne, anch’esse vittime di stupri e violenze da parte dell’ex produttore.
Dopo i tormentati tre anni di attenzione, la condanna finalmente è arrivata, ma solo per due dei cinque capi d’accusa. La giuria ha dichiarato Weinstein colpevole di atti sessuali criminali di primo grado per l’episodio del 2006 e stupro di terzo grado per quello del 2013. Lo stupro di terzo grado implica una condanna molto più lieve, fino a quattro anni di carcere, rispetto alle accuse di primo e di secondo grado, che implicano l’aggravante di minacce e gravi lesioni. Mentre per gli atti sessuali criminali sono previsti fino a 25 anni di reclusione. Dalle altre accuse, invece, Weinstein è stato assolto e i riflettori ricadono sulla più grave di quelle che gli erano state rivolte: l’aggressione sessuale predatoria. Essa, per definizione, si ottiene quando si compiono numerosi stupri di primo grado e comporta la condanna all’ergastolo. Ma, al di là del risultato delle sentenze, un comportamento predatorio è ciò che, in realtà, meglio descrive la condotta del produttore.
Accusato di stupro da 12 donne e di molestie sessuali da oltre 80, ciò di cui Weinstein si è macchiato è un incredibile abuso di potere: grazie alla sua posizione nel mondo del cinema e alla sua potenza economica, ha potuto agire indisturbato per anni, obbligando le vittime delle sue infami vessazioni al silenzio per il timore di ritorsioni sul lavoro o sull’immagine pubblica. Quando è scoppiato il caso, in molti si sono indignati del fatto che le vittime iniziassero a parlare tutte insieme, come a volerle accusare di codardia o, addirittura, di mentire pur di cavalcare l’onda. Ma invece di soffermarsi sulla reticenza delle donne, è più utile prestare attenzione a ciò che ha alimentato il loro silenzio, ovvero l’atteggiamento di un predatore che non le ha rese vittime solo una volta, con l’abuso, ma ogni giorno, con la minaccia di rovinare loro la vita. E se non è questa la definizione di predatore, non so quale possa essere.
Anche lo svolgimento del processo ha visto i suoi momenti più bui, e non solo nella mancata condanna. Al banco della difesa sedeva Donna Rotunno, il cosiddetto legal rottweiler, un avvocato specializzato nella difesa di uomini accusati di stupro. La sua strategia profondamente aggressiva è stata coerente con l’abitudine di invertire i ruoli e accanirsi sulle vittime al fine di screditarle. A tal proposito, il legale ha tenuto Jessica Mann in aula per nove ore, ma neanche questo eccessivo accanimento ha, per fortuna, convinto la giuria dell’innocenza di Weinstein.
L’udienza in cui il giudice dovrà stabilire l’effettiva pena si terrà l’11 marzo e, intanto, un ulteriore processo prenderà luogo a Los Angeles per le accuse di altre vittime. Ma anche se una condanna è arrivata, non si può davvero cantare vittoria. È vero che molto spesso gli stupratori e i violenti, soprattutto quando dispongono di potere e ricchezza, la fanno franca, ed è un gran successo il verdetto di colpevolezza che la giuria ha raggiunto. Eppure manca qualcosa.
Manca la giustizia per ogni vittima abusata, manca l’abbattimento di quelle barriere che hanno concesso gli abusi e represso le voci. Manca il riconoscimento di un comportamento comune e largamente perpetrato, che certamente non si ferma ad Harvey Weinstein o al mondo del cinema, ma che invade la Terra e giustifica i potenti, soprattutto se uomini, che li copre, che fornisce loro la possibilità di abusare, la possibilità di permetterselo. Un comportamento alimentato da una società fondamentalmente fallocratica, che investe l’uomo potente della libertà di fare qualunque cosa, di disporre di tutto e di tutti – e di tutte – a proprio piacimento. Un comportamento certamente difficile da debellare, ma che una parola alla volta, una protesta alla volta, un articolo alla volta e una condanna alla volta, si può combattere. Ma una condanna a metà fa ancora il suo gioco. E questa condanna, sudata e acclamata, può essere un po’ una vittoria, ma lascia l’amaro in bocca.