Esperto di politiche educative e sociali, sottosegretario al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nei governi Monti e Letta, nominato primo maestro di strada dal ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer per il progetto pilota nei Quartieri Spagnoli di Napoli – che non ha mai abbandonato e che lo vedono ancora oggi impegnato a favore dei ragazzi del territorio –, il prof. Marco Rossi-Doria ha risposto ad alcune mie domande sullo stato della dispersione scolastica in riferimento anche al recente rapporto del MIUR di cui è stato coordinatore della cabina di regia ed estensore del documento.
È tempo per una grande politica nazionale tesa a battere il fallimento formativo in Italia. Una politica nazionale di contrasto del fallimento formativo e della povertà educativa: è quanto si legge nel rapporto-documento del MIUR sulla lotta alla dispersione scolastica…
«Appaiono subito due categorie diverse: la prima, più vecchia, sostituisce dispersione scolastica, propria di un lessico guerresco che si usava per la campagna di Russia. Non è il caso, dunque, di usarla per ragazzi che sono portatori di diritti in generale, di diritti di istruzione che non sono affatto dispersi perché uno li ritrova, ragazzi che stanno facendo lavori onestissimi seppure a nero. Fallimento formativo, invece, riguarda la difficoltà di incontro tra molti giovani italiani e stranieri e l’offerta di scuola o di formazione professionale. La povertà educativa, in cambio, è un concetto più recente, più complesso, è frutto di un dibattito internazionale particolare fomentato da Save the Children secondo cui, oltre al problema della scuola che non abbraccia i ragazzi, in certi territori del mondo, ma anche in Italia, c’è da sottolineare che essa non riesce a differenziare l’offerta. Questi ragazzi, quindi, imparano poco, vengono bocciati varie volte, leggono pochi libri, l’area in cui vivono è povera di occasioni culturali e di apprendimento in generale, non ci sono biblioteche comunali, non c’è proposta di teatro, ma un’offerta scarsa di sport. Gli adolescenti stanno sempre davanti alla TV, non sanno usare realmente i nuovi media, quindi, in una città, si formano due tipi di giovani cittadini: gli uni che usufruiscono di occasioni e opportunità di comprensione, conoscenze e formazione; gli altri che ne hanno la quarta, l’ottava, la decima parte. Vanno male a scuola e non ci sono sufficienti azioni compensative. Le occasioni sono state categorizzate, di conseguenza c’è povertà educativa. Parlo di nidi d’infanzia superiori al 50% della popolazione nelle zone critiche, di aiuto pediatrico o di altro tipo alle mamme giovani, soprattutto se povere o sole, di doposcuola regolare, di un’offerta di formazione di sostegno all’apprendimento, di strutture di scuola d’infanzia dopo gli asilo nido da incrementare nei territori più difficili, di opportunità di usufruire di biblioteche, di teatri, di occasioni per la danza, per la musica, per le diverse arti creative, di tempo pieno nelle scuole. Oggi, siamo in grado di indicare quali sono le strutture di ogni quartiere prive delle condizioni elencate e in cui le competenze sono inferiori rispetto agli istituti dove ai più piccoli sono assicurate una serie di attenzioni. Per agire, quindi, dobbiamo chiederci quale sia la qualità di apprendimento.»
I dati che emergono non sembrano confortanti per quanto riguarda la dispersione scolastica. C’è connessione tra il fallimento formativo e il fenomeno delle baby gang?
«Come in tutti i fenomeni complessi ci sono elementi che collegano le due cose, ma non si può dire che ci sia una connessione diretta. Non è che perché non vai a scuola, sei stato due volte bocciato e stai in un quartiere difficile, allora entri a far parte di una baby gang. È un elemento di contesto che può favorire, certo, ma ci vogliono, perché avvenga, altri elementi specifici, personali oltre che di contesti che spingono in questa direzione. A tal proposito, vorrei ritornare sulla questione del fallimento formativo e della sua distribuzione territoriale. Nel sistema Italia, in dieci anni, si è passati dal 20% di venticinquenni che non ha in tasca un diploma di scuola superiore né una formazione professionale almeno triennale spendibile sul mercato legale del lavoro, con picchi del 28.7% in Campania, a una media nazionale del 13.8% e a una locale del 19%. Si tratta di un netto miglioramento seppur graduale. Il target europeo, invece, è del 10%. Teniamo conto che in Veneto sono al 7.8% ma in provincia di Benevento siamo al 10%. Ovviamente, non si deve parlare genericamente della Campania, ma delle aree a forte concentrazione di povertà educativa che corrispondono alla vasta zona metropolitana costiera e alla parte meridionale della provincia di Caserta. Certo, non dico che non ci siano altre criticità. Nella città di Napoli, ad esempio, la scuola del Vomero ha la stessa dispersione, qualcosa in più della periferia di Torino o di Milano, così come Fuorigrotta. Se prendi il cuore della Sanità, alcune zone dei Quartieri Spagnoli, il Vasto, l’area orientale o Soccavo, arrivi a percentuali di ventiseienni che non hanno niente oltre il 30%. La ragione per cui Campania, Calabria e Sicilia sono a questi livelli sta nella mancanza di formazione professionale, mentre in Friuli, Veneto, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Toscana, quando un ragazzo finisce la terza media può frequentare un corso valido per diventare falegname o meccanico, impara un mestiere e contemporaneamente continua un po’ a studiare inglese, informatica. Qui, invece, o vai alla scuola statale o niente. I responsabili politici in termini istituzionali sono le Regioni meridionali, la formazione professionale è competenza della loro classe dirigente. Allora se la Regione Campania o la Sicilia ha quei fondi e continua a fare finte formazioni professionali mentre altre la fanno davvero, tu che sei un ragazzo povero, di una famiglia povera di uno dei quartieri nominati, oltre alla scuola dove devi stare seduto al tuo banco, non hai opportunità. Se ci fosse un investimento serio, penso che le percentuali sarebbero diverse.
Tornando alle baby gang, quindi, non è detto che fatte tutte queste cose esse non esisterebbero. Nelle zone marginali della città, spesso, in alcune famiglie problematiche i genitori non hanno studiato, di conseguenza, i ragazzini dai 12 ai 14 anni, sempre sui motorini, se vanno a scuola, lo fanno per pochi giorni all’anno e non partecipano alle occasioni di attività delle organizzazioni del quartiere. Se ne stanno, piuttosto, dove non c’è un’attesa di sviluppo, un progetto di famiglia, senza prospettive di lavoro, vivono alla giornata con quello che riescono ad avere. Talvolta, soltanto con la pensione minima di un nonno presente. Alcol e sostanze tossiche, poi, li mandano fuori di testa. Sono bande di ragazzini molto giovani che hanno bisogno di avventure. C’è necessità, quindi, di un tipo di intervento utile al fine di contrastare il fenomeno, di figure di prossimità, come educatori giovani molto ben formati e supervisionati, d’accordo con le scuole dell’area interessata. Giovani capaci di vivere e abitare il quartiere, di intercettare questi ragazzi, di parlare il loro linguaggio e di proporre loro delle avventure che sostituiscano quelle che li stanno distruggendo.
In questo momento c’è una riflessione del Ministero dell’Interno, della Prefettura di Napoli e del terzo settore sulla base di esperienze forti che abbiamo in città che vanno dalla zona nord a quella orientale, alla Sanità e ai Quartieri Spagnoli. Stiamo ragionando su come mettere su un modello che intervenga sul rapporto tra scuola e formazione, che rafforzi le regie di quartiere in termini di comunità educante e funzionale dando risorse costanti e sufficienti per un lungo periodo, superando enormi difficoltà burocratiche.»