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Petizione contro l’aborto: l’assistenza sanitaria non è uguale per tutti

Marina Finaldi di Marina Finaldi
9 Aprile 2020
in Attualità
Tempo di lettura: 5 minuti
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L’assistenza sanitaria non è uguale per tutti. L’associazione ProVita & Famiglia promuove, in questi giorni durissimi, una petizione per impedire l’accesso all’aborto. Il pretesto è l’emergenza coronavirus: con il sistema sanitario nazionale in sofferenza, bisogna ridurre quanto più possibile le occasioni di interventi chirurgici per evitare di occupare le sale operatorie. Semplice, pura, pulitissima logica pro-life: la messa in discussione di un diritto essenziale per le donne in virtù del bene superiore.

L’intestazione della petizione recita: durante la pandemia l’aborto non è un servizio essenziale. Quel durante la pandemia è quasi superfluo: viene, infatti, da domandarsi se un servizio classificato come non essenziale in fase emergenziale possa, invece, considerarsi irrinunciabile finito la crisi. Nel corpo dell’istanza possiamo leggere:

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In ragione della pandemia da coronavirus […] sono state rinviate le operazioni chirurgiche non strettamente indispensabili e le attività ambulatoriali non urgenti per liberare risorse e spazio per affrontare l’emergenza. Tuttavia si continua imperterriti a sopprimere i bambini nel grembo materno e a considerare la pratica abortiva come se fosse un servizio essenziale, indifferibile e urgente.

Le scelte lessicali e sintattiche sono evidentemente marcate. Implicano, insinuano e non lasciano niente al caso. Il si impersonale che suggerisce l’ampia e generale diffusione della pratica, l’uso dell’espressione sopprimere nel grembo materno per indicare l’interruzione di gravidanza, infine, la scelta di bambini al posto del termine più neutro e scientificamente accurato feto. Ancora, il dubbio espresso con il periodo ipotetico di fronte agli aggettivi essenziale, indifferibile e urgente. Tutte cose che l’accesso all’aborto deve essere per legge: l’interruzione volontaria di gravidanza è permessa nei primi novanta giorni dalla 194. Indifferibile e urgente.

Nonostante le convinzioni delle associazioni pro-vita, il trend delle IVG in Italia ha registrato, negli ultimi anni, un netto calo (dalle 235mila del 1983 a circa 87mila nel 2017) e questo è anche e soprattutto merito della diffusione della contraccezione d’emergenza – la cosiddetta pillola del giorno dopo o la pillola dei cinque giorni dopo – acquistabile anche senza prescrizione medica per le maggiorenni. Ma a rendere ancor più fondato il sospetto che l’emergenza c’entri ben poco è il fatto che la petizione chieda la sospensione anche dell’aborto farmacologico con RU 486, adducendo come ragione che le percentuali d’insuccesso dell’aborto farmacologico ricadrebbero sempre sugli ospedali con grave dispendio di personale e risorse.

L’aborto farmacologico, in Italia, prevede un’ospedalizzazione di tre giorni. Per tale motivo, all’inizio dell’emergenza COVID-19, i ricoveri per questa pratica erano già stati drasticamente ridotti, come le attiviste dei gruppi Obiezione Respinta e Ho abortito e sto benissimo hanno confidato a Il Post. Alla difficoltà di poter interrompere la gravidanza nelle strutture ospedaliere, anche senza l’aiuto della petizione pro-vita, si aggiunge l’altissima probabilità di incontrare medici poco inclini. Nel nostro Paese, infatti, il 68.4% dei ginecologi si appella all’obiezione di coscienza.

Obiezione Respinta mette a disposizione una Mappa degli Obiettori, per aiutare le donne a orientarsi e a non sentirsi abbandonate nel dedalo di veti e ostacoli che si frappongono tra loro e il diritto all’assistenza in fase di IVG. Per questa mappa, l’organizzazione è finita nel mirino di certa stampa e di esponenti politici legati alla destra più radicale che hanno proposto l’oscuramento del sito web dopo averlo definito progenie vergognosa del femminismo pericoloso e antistorico.

Intanto, la petizione – che si proponeva di raccogliere 20mila firme – è stata sottoscritta, al momento della stesura di questo articolo, già da più di 16mila persone. A preoccupare non è tanto il fatto che, in un periodo così delicato della nostra storia politica, un simile esposto possa portare a un effettivo sovvertimento della Legge 194. Piuttosto, preoccupa che qualcuno pensi di approfittare di questo momento per mettere in discussione i diritti di un altro e che raccolga pure un certo consenso. D’altronde, l’Italia non è l’unico Paese a ravvisare allarmanti tentativi di cancellare il diritto all’IVG.

Negli USA, il Texas e l’Ohio tentano la stessa via ordinando la chiusura delle cliniche di Planned Parenthood che praticano l’aborto. Ancora una volta, a testimonianza e riprova della tesi secondo cui l’emergenza COVID-19 abbia a che fare veramente poco con questo attentato alla libertà, ci sono le battaglie intraprese negli ultimi anni dai repubblicani. Proprio l’Ohio si era visto bocciare come incostituzionale il disegno di legge volto a rendere illegale l’aborto dopo le prime sei settimane di gravidanza. Quel disegno di legge era figlio di una precisa strategia politica messa in atto dai governatori di moltissimi stati per provare a sovvertire la storica sentenza della Corte Suprema Roe contro Wade, che, nel 1973, aveva legalizzato e regolamentato l’interruzione volontaria di gravidanza negli Stati Uniti. Il modello del disegno di legge dell’Ohio, poi ribattezzato Hearbeat Bill, era stato realizzato e fortemente voluto dall’associazione pro-vita Faith2Action. Molti stati l’hanno poi ripreso e adattato alle loro esigenze e tutti avevano come leva emotiva la possibilità, a sei settimane, di rilevare il battito cardiaco nel feto – affermazione poi dichiarata imprecisa da diverse fonti scientifiche.

Gli Heartbeat Bills usano la stessa strategia retorica della petizione di casa nostra: ci si riferisce al feto sempre come bambino, si paragona l’interruzione volontaria di gravidanza all’omicidio e, nei casi più estremi come quello dell’Alabama, si arriva addirittura a suggerire che l’aborto e il genocidio perpetrato dai nazisti abbiano molto in comune. In questi giorni, sul sito di Faith2Action si può leggere uno slogan che farebbe accapponare la pelle anche ai più rodati operatori del marketing a risposta diretta:

Hanno chiuso la vostra chiesa.

Hanno chiuso la vostra scuola.

Hanno chiuso la vostra attività.

Allora perché le fabbriche di aborto vanno avanti a pieno regime?

Ora, a rischio c’è la tua vita.

Per poter abortire, anche con il metodo farmacologico, una donna deve recarsi presso la struttura sanitaria dove opera il medico che l’ha seguita. La procedura può essere avviata solo 24 ore dopo la decisione definitiva della donna stessa, in molti casi costretta a percorrere grandi distanze pur di abortire. Una situazione del genere diventa difficile da gestire durante una pandemia. È a questo che si appellano le associazioni pro-vita americane, esattamente come in Italia. Eppure, una soluzione che non cancelli il diritto all’assistenza sanitaria delle donne che decidono di abortire c’è. Viene dall’Inghilterra. Il Paese ha predisposto una rete di supporto medico teleguidato che permetterà di interrompere la gravidanza in sicurezza con il metodo farmacologico da casa, senza dover ricorrere all’ospedalizzazione.

L’emergenza che stiamo vivendo e la pressione sul sistema sanitario nazionale possono distrarci, possono spingerci a pensare che lasciare andare qualche diritto non sia poi un gran sacrificio. Margaret Atwood, ne Il racconto dell’Ancella, scriveva: Meglio non significa mai il meglio per tutti […] ma sempre, per alcuni, significa il peggio. Mai abbassare la guardia. Nolite te bastardes carborundorum.

Prec.

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