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Napoli, che ti è successo? La città tra paura e depressione

Alessandro Campaiola di Alessandro Campaiola
9 Giugno 2022
in Il Fatto
Tempo di lettura: 4 minuti
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Chi o cosa comanda a Napoli? Impossibile non chiederselo, troppo facile non pensare a una risposta che non suoni retorica, ma che – mai come ora – forse retorica non è più. A Napoli, dallo scoppio della pandemia e ancor più negli ultimi mesi, comandano la paura e la depressione, e con loro tutto il sistema che genera tali sentimenti. Non vi è lettore – siamo pronti a scommetterci – che leggendo la nostra introduzione avrà pensato con orgoglio alle istituzioni, a Palazzo San Giacomo, un luogo misterioso da cui non sembra uscire altro che fumo.

Dalle ultime elezioni amministrative, il capoluogo campano si muove come una macchina senza guida, senza alcuna visione politica (né immediata né programmatica), una città senza un governo. Le poche iniziative che Piazza Municipio è stata in grado di mettere in pratica hanno beneficiato dei frutti seminati negli anni addietro senza, però, offrir loro alcuna prospettiva di crescita, anzi, in alcuni casi – come per il turismo – il malfunzionamento dei servizi e l’instabilità che regna a palazzo non hanno fatto altro che produrre l’effetto contrario.

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Dalla metropolitana incredibilmente chiusa nel giorno di Pasqua alle inutili ordinanze sulla movida, la città sembra governata da una politica che non la conosce, che non la vive, che non è in grado di tastarne il polso o, forse, proprio perché ne ha avuto contezza negli anni appena trascorsi, sa che spegnerne gli ardori è l’unica via per affermarsi.

A Napoli sono tornati paura e degrado, due spettri da cui la città del Vesuvio si era liberata con enorme fatica ma che, con le cronache recenti che raccontano sempre più di strade violente e periferie abbandonate, nelle ultime settimane aleggiano nuovamente sui vicoli del centro. E se, per onestà intellettuale, sottolineiamo con forza quanto certe piaghe di carattere sociale non siano ascrivibili al Sindaco e alla sua squadra (quanto al Viminale, da sempre sordo alle richieste dei Sindaci di maggiore controllo del territorio), allo stesso modo non riusciamo a non domandarci se la mancanza di iniziative culturali di matrice popolare e spontanea che avevano caratterizzato l’esperienza amministrativa precedente non sia complice della depressione che vive oggi Napoli.

A chi spetta, però, il compito di incoraggiare la creatività di un territorio a venir fuori, a renderlo vivo, vivace, vivibile? Palazzo San Giacomo sembra non tener conto del percepito della popolazione. Una leggerezza gravissima, a maggior ragione che, a Napoli, il percepito di chi ci vive raconta di immobilismo, di quella antica mentalità per la quale qua non cambia mai niente. E, invece, a Napoli, con tutte le difficoltà e i problemi che non erano certamente spariti, qualcosa era cambiato, ed era cambiato nello spirito.

Una politica che, nel frattempo, ha prodotto stipendi triplicati e otto mesi di gravi inadempienze, come nel caso delle municipalità, si è distinta per la repressione adoperata sui giovani e sulle attività economiche, con la stretta ai locali notturni che non solo non ha impattato sulla sicurezza, anzi, ha regalato strade deserte a una delle città più attive del mondo anche oltre la mezzanotte e tentativi di elusione delle ordinanze, con il conseguente malumore dei commercianti, invece, ligi alle regole. 

La grande confusione che si avverte a Palazzo San Giacomo – lo avevamo predetto – è figlia della maggioranza eterogenea a cui il Sindaco Manfredi ha affidato la propria elezione, una maggioranza che ora passa dal via e chiede conto, ognuno coi propri interessi che chissà se sapranno coniugarsi nell’interesse per la città.

Se a questo quadro avvilente si aggiunge la minaccia delle privatizzazioni – come denunciato in consiglio comunale anche dalla consigliera d’opposizione Alessandra Clemente in merito agli asili –, e le recenti immagini dell’immondizia accumulata ai bordi delle strade del Vomero o di Pianura, Napoli piomba in un dramma sociale che non può permettersi, un dramma che non mette soltanto a rischio la reputazione ricostruita a fatica dopo l’emergenza di oltre dieci anni fa, ma anche gli investimenti di quanti in questi anni hanno scommesso su locali, bar, b&b, attività di ogni tipo.

Quando ancora qualcuno propone il confronto tra ciò che era prima e ciò che è adesso, è lì che il gap sembra incolmabile, nello spirito, nel “quanto ci credevamo prima e quanto ci crediamo ora”, nella risposta che molti darebbero alla domanda se investirebbero nuovamente nella loro città. 

Al fuitevenne di Edoardo, questo giornale ha sempre cercato di rispondere con abbiamo il dovere di mentire del nostro Antonio Salzano, pronunciato a un incontro sulla libertà di stampa e quanto, quest’ultima, fosse in grado di schierarsi contro la città di Napoli sempre e a prescindere. Il nostro direttore editoriale sosteneva che, talvolta, tocca difendersi anche a costo di qualche bugia. Stavolta, però, nemmeno più le buone bugie sembrano bastare. O si reagirà di comunità, come avevamo imparato a fare, facendo leva sul senso di appartenenza, della nostra cultura, o la voce di Edoardo tornerà forte a suonare nella testa dei tanti giovani che ci avevano creduto.

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