A Porta San Gennaro, via Foria, di fronte al popolare quartiere della Sanità, è fissato l’appuntamento con Mirko Revoyera, che alcuni giorni fa mi ha comunicato la sua venuta a Napoli, città che il contastorie umbro, scrittore e autore teatrale, ha particolarmente a cuore. Seduti al tavolino di un bar – non particolarmente attrezzato della tradizionale pasticceria napoletana – cessato il fracasso di una mini-banda di passaggio con alcuni fujénti, persone vestite di bianco devote alla Madonna Dell’Arco – in verità, maggiormente devote alla raccolta di offerte –, gli chiedo:
Un contastorie, un favoliere, un autore teatrale, un perugino nel cuore della Sanità. Ancora una volta a curiosare fra i misteri di Napoli. Il forte legame con la città come nasce?
«Nella mente di forestieri come me, Napoli si costruisce innanzitutto attraverso il cinema, la televisione, la letteratura, la musica e mille altri elementi di racconto. Un ritratto complesso, frammentato, mediato, scolpito e definitivamente consacrato dalla lingua, unica e ricchissima. Anch’io, come tutti, sono cresciuto nel mithos di Partenope e, quando anni fa sono venuto a conoscerla, sono stato invaso delle risonanze di tutto quel che ho ascoltato, letto e visto nella descrizione di altri. Il rischio perciò è stato quello di vedere Napoli in maniera presupponente, muovendomi alla ricerca di conferme anziché alla scoperta di nuovi elementi, di pormi cioè come spettatore di un teatro meccanico, un presepio di personaggi fissi. Non è facile farsi una Napoli propria, per chi non la vive ogni giorno. Fortunatamente la mia prima volta in città fu per motivi di lavoro, prima a Chiaia, poi alla Mostra d’Oltremare, quindi nel delizioso Teatro dei piccoli. Dovendo sottostare ai tempi e ai problemi del lavoro, fui sottratto alla condizione sospesa del turista. Questo è stato un ottimo vaccino contro lo stereotipo.
Hai ragione a dire fra i misteri di Napoli. Per me Napoli è e resterà ricca di misteri, quelli quotidiani da scoprire nel vico, appena svoltato il cantone o nel silenzio dei chiostri, nella grande via caotica e quelli monumentali legati alla grande Storia, da ricavare studiando e meditando nei musei come dentro la metropolitana. Sento che nel tempo va consolidandosi in me una mappa emotiva di Napoli, legata a minime impressioni, ad accadimenti che lì per lì paiono di poco conto ma che insospettabilmente scrivono da qualche parte il mio vissuto napoletano. Ci vuole tempo per costruire questo intreccio, ma Napoli sta qui, generosa, con qualche mistero da regalare ogni volta.»
Dal suo zaino prende il suo ultimo lavoro, un copione teatrale da leggere come una novella: Fra’ Rafaé, overo l’abbito face lo monaco – Storia di affarfanti e ciarlatani. Me ne fa dono e lo ringrazio, ma sono curioso di comprendere il suo rapporto con la nostra città.
Ci sono elementi comuni tra lo stile della tua narrazione, il modo di fare teatro e alcune espressioni artistiche tipiche di Napoli?
«Sono portato a intravedere negli accadimenti l’ombra dell’universale, il disvelamento di archetipi comportamentali, la manifestazione di sottostanti forze che sorgono dall’ignoto mostrandosi a chi le vuole leggere. Posso dire, scherzando, che mi sento un materialista magico. Sospetto quindi che questa mia disposizione al mistero, mescolata a un’ottica scanzonata e disillusa della quotidianità, sia un derivato di quella presente da sempre nella cultura partenopea. Scrivo solo dopo aver pronunciato periodi e parole, alla ricerca del loro ritmo interno, con l’obiettivo di fare dello scritto una cuntata, perciò per me la scrittura è innanzitutto appunto, e non castello letterario compiuto da esibire. La costruzione di descrizioni ambientali, il tratteggio dei particolari, l’indagine introspettiva, e ogni altro elemento del racconto, per me non possono sottrarsi all’immediatezza espressiva cui il contastorie è forzato dal dovere d’intrattenimento verso l’ascoltatore. Anche in questo legame al ritmo della narrazione orale si potrebbe intravvedere un nesso con le modalità artistiche napoletane. A Napoli il ritmo è tutto. Nel testo teatrale di Fra’ Rafaè, overo l’abbito face lo monaco, scritto in un misto di italiano e vernacoli vari, proprio per ricercare un ritmo spendibile teatralmente, mi sono concesso qualche furtarello commesso per amore della lingua napoletana: Trasire, piccirilli, songo, etc. hanno impreziosito il testo e sostenuto il ritmo recitativo.»
Fra’ Rafaè, overo l’abbito face lo monaco – Storia di affarfanti e ciarlatani, un libro, un copione teatrale fresco di stampa (con illustrazioni e costumi di Mariella Carbone), che tocca alcune categorie molto presenti anche nei nostri giorni. Le ultime tredici righe del tuo lavoro sembrano delineare con precisione un personaggio o è soltanto una mia impressione?
«Nel 2001, quando mi fu commissionato lo spettacolo dal CEDRAV di Cerreto di Spoleto per celebrare la figura storica del Ciarlatano, il richiamo alla figura dell’allora Cavaliere Berlusconi – poi disarcionato per indegnità, e ridotto a fante – fu immediato. Questo spostò lo spettacolo dall’ambito della ricostruzione storica farsesca al teatro satirico politico, anche se nel testo il palesamento del pregiudicato di Arcore avviene alla fine, in tredici righe, appunto. Ma va detto che lungo tutto lo scritto si capisce che Fra’ Rafaè non è che la maschera buffonesca del truffatore ideologico per eccellenza, quello che tira ogni filo della narrazione a suo esclusivo vantaggio attraverso un duplice mascheramento. Da primo, si propone al pubblico come un pio frate che viene in piazza a raccontare le malefatte dei ciarlatani contro i buoni cristiani, poi li chiama sotto la sua protezione perpetua: Io, Fra’ Rafaele, lo cavalier de Libertate, scennerà in campo a salvavvi, anche se vecchio, perché quelli comm’a me nun invècchieno mai! Magare cambierò li vestimenta, cambierò la faccia puro, ma m’arriconoscerete sempre, perché ne lo segno de Frate Rafaele, l’unto del Signore, stassi la vittoria. Alla conta dei fatti, la cronaca odierna ci racconta come dentro il saio di finto frate possa calarsi qualsiasi malfattore intenzionato a orientare l’opinione pubblica. È proprio l’abbito che face lo monaco. Magari un abito nuovo da cambiare per ogni città visitata, con il simbolo ben stampato di una diversa umanità, quella che si vuol circuire. Travestimenti ciarlataneschi, appunto.»
Chi sono gli affarfanti e i ciarlatani del nostro tempo e quali le differenze tra le due categorie?
«Se mi rifaccio al testo dello Speculum cerretanorum di Teseo Pini e alle analisi di Piero Camporesi nel Libro dei vagabondi (1973), testi che ho studiato per strutturare lo spettacolo, onestamente non saprei chi indicare come erede diretto dei ciarlatani di allora. È la pratica dell’illusionismo truffaldino che posso constatare come diffusa e penetrante nel tessuto sociale e nelle relazioni politiche ed economiche. Da additare non sono tanto e soltanto il politicante di turno o la Wanna Marchi o il Mago du Nascimiento. Quelli sono soltanto i casi eclatanti. Il fatto è che la ciarlataneria come vendita di illusione è perfino desiderata dai truffati. Si ha bisogno di credere l’incredibile. Si vuole essere partecipi di un evento miracoloso. Si ha bisogno di delegare tanto la responsabilità delle proprie sventure quanto la loro risoluzione a figure esterne. Esse sono magiche quando si abbattono e magiche quando salvano. La bassa magia popolare è tutta improntata a questo ineffabile bisogno di deresponsabilizzazione, anche a costi personali altissimi. Da sempre è così. Perciò il ciarlatano non è impiccabile nella stessa piazza che l’ha acclamato e gli ha comprato la pozione magica scucendo bajocchi. E non è manco facile capire dove cominci la buggeratura e dove la cura, perché l’attribuzione del solo valore lenitivo – apotropaico per gli amuleti o per le procedure magiche – è intimo, e nessuno può contestarlo se il soggetto ne dichiara la validità. Così, i grandi truffatori della politica o del mercato possono sempre vantare la loro funzione di figura magica coesiva di masse che rimarrebbero sparpagliate senza riferimenti ideali comuni. I ciarlatani agitano paure, additano avversità incombenti, orizzonti di pace e prosperità da raggiungere, invocano il cielo di cui si propongono testimoni. Solo poi sfoderano la soluzione. Il ciarlatano è in sostanza un Ministro dell’Inferno che apre le bocche fiammeggianti mostrando i diavoli pronti a invadere il paesello e contemporaneamente si propone come cavaliere scaccia-diavoli. Al malcapitato non resta che donare soldi o voti. Noi stiamo facendo questo con gli immigrati? Diavoli che giustificano i ciarlatani scaccia-diavoli.»
Ho l’impressione che i ciarlatani riescano a incantare le vittime di altri ciarlatani. La storia recente sembra darmi ragione, o no?
«Come ti dicevo, il problema di fondo è il bisogno di affidare a qualche ente esterno la responsabilità della propria sventura e la salvazione. Perciò sulla piazza il ciarlatano sa di essere in concorrenza con altri, non tanto riguardo la veridicità del suo prodotto, quanto sul piano della credibilità esteriore e temporanea. Deve essere performantico e curato. Tornando al mio testo, l’apprendista ciarlatano, vestito in panni laceri e privo di dialettica sopraffina, può ambire solo a basse ruberie, può architettare fregature sì, ma di poco conto. Al contrario, nel momento in cui lo stesso rozzo pezzente si veste di un saio e invoca i santi con la complicità di un compare pronto a certificare il suo miracolo, la prospettiva di inganno si amplia e gli emolumenti si fanno corposi. Le donne giungono a toccargli la veste, gli uomini gli chiedono protezione contro gli accidenti della vita. I ciarlatani così si riconoscono tra loro nelle specifiche particolarità. Il venditore di pozioni non calpesterà mai il frate in odore di santità per la sua vicinanza a San Vincenzo confessore; il finto storpio non sottrarrà la scena al finto mastro di casa del Barone Villighelmo Von Intelback. Ognuno ha il ciarlatano che si merita. I ciarlatani non rubano, sia chiaro, seducono convincendo all’acquisto di illusioni e le illusioni sono tante. Così loro raccolgono con entrambe le mani.»
Le ultime due righe risultano come un messaggio di speranza. Scompariranno i ciarlatani o l’umanità è destinata e vederne partorire in eterno?
«Tempo addietro, proprio mentre ero in scena con Fra’ Rafaé, ho lavorato come voce narrante in un documentario molto affascinante dal titolo OLDUVAI – La culla dell’Umanità, dell’Università di Perugia, facilmente reperibile su YouTube. In esso si ricostruisce il percorso evolutivo dell’Homo Sapiens. Al termine, le eminenti figure intervenute esprimono una loro visione del nostro essere uomini. Jonathan Kingdon della University of Oxford così si esprime: Si può giungere a una sola conclusione: Siamo ladri. Siamo ladri professionisti. Ci appropriamo delle nicchie di altri animali. Questa è la nostra specialità. Come dirlo meglio?»
Si è fatto tardi e la nostra chiacchierata deve necessariamente terminare per alcuni impegni di questo straordinario scrittore. Gli consiglio, allora, un ottimo ristorante di fronte al Duomo dove certamente troverà tutti i piatti e la pasticceria della migliore tradizione napoletana con la benedizione di San Gennaro compresa, di cui credo non intenderà fare a meno.