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Mascherine rosa, mascolinità fragile e mascolinità tossica

Alessandra Trifari di Alessandra Trifari
20 Gennaio 2022
in Rubriche
Tempo di lettura: 5 minuti
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Mascherine rosa e polizia: ne avrete sentito parlare tanto. È successo tutto quando sono state consegnate delle FFP2 ad alcune questure italiane. Peccato che fossero di colore rosa e che il SAP abbia prontamente protestato indirizzando una lettera al Capo della Polizia, Lamberto Giannini, lamentando la mancanza di decoro per la divisa: l’uso dell’uniforme è regolamentato – hanno scritto dal sindacato – e il colore risulta eccentrico, con il rischio di pregiudicare l’immagine dell’istituzione e far perdere autorevolezza alle forze dell’ordine che gradirebbero colori più consoni come il nero, il bianco o il blu. Una polemica che è balzata in prima linea.

Anzitutto, è impossibile non ravvisare la carica discriminatoria nei confronti di un colore associato per stereotipo all’universo femminile e dunque sinonimo di fragilità, debolezza, frivolezza. Un colore che, di certo, non può rappresentare l’impavidità e la virilità delle nostre forze dell’ordine. No, l’onore va preservato – ironico, la storia ci insegna come, in realtà, il rosa rappresentasse la natura viva della carne e, pertanto, è stato a lungo simbolo maschile. Di fronte alla bufera, la risposta è stata di non aver alcun pregiudizio e che anche una mascherina verde o rossa avrebbe sortito la stessa reazione. Ma è davvero così? Inoltre, è davvero il caso di soffermarsi su tali piccolezze quando la situazione pandemica è ancora così critica e la difficoltà nel reperire i dispositivi di sicurezza – vedi le scuole – continua a generare disappunto? Basta averle, commentano infatti sui social e il caso dovrebbe chiudersi qui.

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Tuttavia, l’idea che un colore possa effettivamente compromettere le certezze dell’essere umano e destare tanto scompiglio ci porta alla riflessione. Una riflessione basata, in questo caso, sul concetto di mascolinità e su quelle che vengono sempre più spesso definite mascolinità fragile e mascolinità tossica. Il professor David Gilmore, nel suo La genesi del maschile. Modelli culturali della virilità, scriveva dell’enorme e costante fragilità della mascolinità nella maggior parte delle società umane. L’uomo è perennemente in gara, una continua ansia da prestazione e necessità di affermazione di sé e della propria virilità, consapevole che basta appena una briciola per vanificare l’intero lavoro. Questo perché si crede che esista una mascolinità giusta, normale, frutto di un sistema di potere ben preciso, il patriarcato.

Storicamente, questo ha previsto la superiorità e il dominio del genere maschile sugli altri ed è per tale motivo che è assolutamente fondamentale identificare il vero uomo e ribadirne il significato in continuazione. E ribadire che ciò che tende al femminile è più negativo di ciò che tende al maschile, proprio per lo stesso sistema di potere. Ecco che avere le palle è tutt’oggi un complimento, ma essere una fighetta è dispregiativo, che una donna in abiti maschili è casual, androgina o sicura di sé, ma un uomo in abiti femminili è un fr**io, che una donna indossa tranquillamente ogni colore, azzurro compreso, ma il rosa per gli uomini è il demonio.

La fragilità generata dal costante ostentare per timore di non essere considerato un vero maschio è conseguenza di quella che gli studiosi del genere e di antropologia definiscono mascolinità tossica, ovvero quelle caratteristiche che indicano come dovrebbe essere e come dovrebbe comportarsi un uomo. Un uomo non piange, è forte fisicamente, fa il primo passo con la donna nella vita come a letto, paga sempre il conto, non si depila, ha per natura certi istinti, non fallisce sessualmente, non ha atteggiamenti effeminati, ha successo nel lavoro, è sempre sicuro di sé, non mostra troppe emozioni. Uscire anche lievemente fuori dai bordi non è contemplato.

Aveva ragione Chimamanda Ngozi Adichie: La cosa di gran lunga peggiore che facciamo ai maschi, facendo intendere che devono essere duri, è che li lasciamo con degli ego molto fragili. E poi facciamo un lavoro anche peggior con le ragazze, perché le educhiamo a soddisfare i fragili ego degli uomini (da Dovremmo essere tutti femministi). Ciò si ripercuote psicologicamente, attraverso complessi, ansie, frustrazioni, ma anche fisicamente, ad esempio informandosi poco o nulla sulla propria salute sessuale se non quando la patologia è già comparsa, come sensibilizza il movimento Movember. Ma le conseguenze peggiori sono quelle violente, testimoniate dal numero allarmante di femminicidi (ribadiamolo, femminicidi, non omicidi: non è morta una donna perché investita con l’auto da un tizio ubriaco) che mette chiaramente in luce le problematiche di questo sistema malato. Quello che gli rende impossibile accettare un rifiuto o che la donna, che a lungo gli è stato insegnato essere sua e su cui deve primeggiare, possa contravvenire alle regole, umiliarlo. Se lo fa, va punita.

Esempio eclatante di mascolinità fragile e tossica è quanto accadde con lo spot pubblicitario di Gillette nel 2019. Lo storico slogan The best a man can get (il meglio che un uomo possa ottenere), fu rinnovato in The best man can be (il meglio che un uomo possa essere), con la volontà di mostrare al pubblico maschile, essenzialmente il target principale, gli effetti del sessismo sugli uomini e quindi della mascolinità tossica. L’idiozia del catcalling, un ragazzino bullizzato e chiamato femminuccia, padri che giustificano i figli che fanno a botte con la frase I maschi sono maschi. Poi, d’un tratto, la svolta. Uomini che si sostengono a vicenda nelle difficoltà, un papà e la sua bimba che ripetono io sono forte. E un monito per ricordarci che i bambini che ci guardano oggi saranno gli adulti di domani. Un messaggio emozionante, di grande fratellanza e abbattimento degli stereotipi. Le reazioni del pubblico, sorpresa delle sorprese, furono però non delle migliori.

In primis, accanto a non ci sono più le mezze stagioni e i problemi sono altri, l’evergreen not all men (non tutti gli uomini), come se ammettere che c’è qualcosa da risolvere rendesse automaticamente tutto il genere maschile colpevole. Senza comprendere che ciò serve a sensibilizzare chi si riconosce e chi no poiché è necessario il contributo di tutti. E quale poteva essere la seconda maggiore accusa allo spot se non quella di aver demascolinizzato, devirilizzato gli uomini? Eccola lì, la mascolinità tossica che festeggia i suoi traguardi, ecco la fragilità che traspare dalle reazioni negative ogni volta che si mette in discussione il modello standard maschile. La dimostrazione perfetta ed eclatante di quanto ci sia ancora bisogno, e tanto, di spot di questo tipo.

Fortunatamente, la cultura pop degli ultimi tempi sta mettendo a dura prova alcuni tratti della mascolinità tossica, mutando quella fragilità in orgoglio di essere solo se stessi e fare ciò che piace, ad esempio nell’utilizzo di un colore femminile, del make up e di abiti no sex. Star come Jason Momoa, Dwayne Johnson, Jared Leto, Timothée Chalamet, Jake Gyllenhall e molti altri, fieri e virili nei loro abiti rosa. Oppure, basti ricordare più di un episodio in cui lavoratori o studenti hanno protestato per l’assenza di pantaloni corti estivi, indossando le gonne delle colleghe/compagne. Magari potrebbe prendere esempio anche il SAP con qualche semplice mascherina, ricordando che il valore di una persona si misura in tutt’altra maniera.

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Alessandra Trifari

Classe 1991. Dottoressa in storia dell'arte e disegnatrice. Scrive da sempre e la sua mente viaggia tra arte, cinema, musica e parità di genere. Dei due sentieri, sceglierà sempre il meno battuto.

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