È possibile parlare di corpo? Soprattutto, è possibile parlare di un corpo che non è il proprio? Recensire il romanzo d’esordio di Martina Faedda, La vita profonda (nottetempo), è un’operazione che somiglia a tutto quanto l’autrice ha combattuto per un lungo periodo della sua vita, dunque qualcosa da maneggiare con grande cura: il giudizio.
Questo libro, in fondo, è la sua storia, uno spaccato di esistenza che attinge a piene mani dall’esperienza della scrittrice, dal proprio vissuto, e ruota attorno a un tema oggi tanto discusso ma ancora, soltanto, per il giudizio che gli altri ne danno.
La vita profonda è un romanzo che prova a mostrare come gli uomini si appropriano del corpo delle donne, che lo facciano in maniera più o meno diretta, più o meno violenta, più o meno consapevole. Tutti noi siamo vittime di comportamenti tossici per quel che riguarda il corpo delle donne, e libri come quello di Martina Faedda altro non fanno che metterci di fronte allo specchio.
Ogni volta che parlo alle persone di una recente pubblicazione del nostro marchio editoriale – Fat Phobia di Sabrina Strings – tendo a ripetere che si tratta di un libro dalla cui lettura ho sentito di uscire come messo al corrente degli errori a cui rischiavo di andare incontro ogni giorno: nel dialogo, nella scrittura, nel giudizio, appunto.
Strings, attraverso il suo saggio, ripercorre le tappe storiche, scientifiche e filosofiche che hanno portato a determinare l’ideale di bellezza attualmente perseguito in Occidente, prendendo in considerazione i soggetti solitamente marginalizzati o esclusi dai trattati di estetica. Martina Faedda, con il suo La vita profonda, ha come rispolverato quelle sensazioni, aggiungendo alla ricerca della sociologa americana l’intimità di un racconto che vibra della propria esperienza personale che si avverte a ogni pagina. Il suo – come quello di Strings – è un romanzo politico, ma in maniera diversa. È politico in quanto il caso di Olivia (la protagonista) riguarda tantissime altre, dunque si può figurare come un manifesto sociale.
Olivia cresce con due uomini, due figure paterne diverse, due insegnamenti diversi, due sguardi sul suo futuro e sul suo corpo diversi. La protagonista prova a conquistare l’amore di entrambi e sa che per riuscirci deve lavorare sulla percezione che loro hanno di lei. Un corpo al contempo da proteggere – stai attenta – e da rendere bello – così piaci ai ragazzi – un dualismo che è, in verità, una spirale che soffre sempre lo stesso ritorno, lo stesso destino.
La vita profonda è un romanzo che parla di famiglia, di idee di famiglia, di casa. Anzi, di case, due case che si uniscono al centro attraverso una stanza schiacciata, senza respiro, una metafora perfetta di come la vita stessa di Olivia sia divisa tra le due abitazioni e senta, forse, di non abitarne nessuna per davvero.
Così, la protagonista sviluppa una sorta di paura di occupare spazio che sente non appartenerle, si afferma per privazione. Eppure, l’unica via di salvezza passa proprio attraverso questa condizione di rinuncia ma da un punto di vista diverso, ossia quello dell’immagine riflessa allo specchio.
Come Martina Faedda sostiene, in fondo l’unica cosa per cui lottiamo sin dalla nostra nascita è l’amore, l’apprezzamento delle persone a cui siamo legati. È attraverso gli occhi di chi amiamo che vediamo noi stessi, non vi è altra strada, che operino di noi una descrizione, che ci scattino una fotografia, che ci accompagnino – come detto – di fronte allo specchio, motivo per cui quello sguardo ha bisogno di essere gentile.
Dunque, non sono sicuro di essere riuscito a rispettare il proposito d’apertura, non giudicare, ma il romanzo di formazione di Martina Faedda è abbastanza maturo da eventualmente affrontare qualsiasi tentativo di un racconto che possa differire con l’immagine che è riuscita a formare di sé, con la consapevolezza di un percorso affrontato non senza difficoltà, ma che è giunto a una meta che è sinonimo di libertà.