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Lo Statuto dei Lavoratori, quello degli eroi

Angelo Potenza di Angelo Potenza
9 Novembre 2021
in Il Fatto
Tempo di lettura: 4 minuti
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La realtà difficile dei lavoratori in Italia è una ferita, ormai da tempo ben esposta e sotto gli occhi di tutti, che non si riesce – e pare non ci siano nemmeno la voglia e la convinzione – a sanare. Non servirà a svelare nuove verità, dunque, il programma di Gad Lerner su Rai 3 dal titolo Operai e purtroppo, in tal senso, non servirà neppure questo articolo.

Ciò non vuol dire, però, che non sia estremamente necessario parlarne in continuazione per cercare, in qualche modo, di contribuire a riportare la questione al centro delle agende programmatiche di una classe politica sempre più lontana dalle esigenze dei cittadini.

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C’è un brano del cantautore Michele Salvemini, meglio noto come Caparezza – da sempre vicino alle tematiche del sociale – chiamato Eroe (Storia Di Luigi Delle Bicocche), il quale ben riesce a descrivere la condizione amara degli operai e che può essere interessante ascoltare. Luigi Delle Bicocche è un padre di famiglia che, come tantissimi altri nel nostro Paese, deve sgomitare ogni giorno per quello che gli spetterebbe come un suo diritto e che, invece, è progressivamente stato trasformato in un privilegio, a costi sempre più duri, concesso da chi sta più in alto nella scala sociale. Il protagonista della canzone, che dovrebbe poter condurre una vita normale e serena, è invece, ai nostri giorni, un eroe – da qui il titolo – proprio per la lotta quotidiana che si vede costretto ad affrontare per proteggere se stesso e i suoi cari dalle mani dei sicari e dei cravattari.

La Penisola è piena di donne e uomini, giovani e meno giovani, costretti a diventare eroi, ed è una constatazione che duole se consideriamo che proprio in questi giorni, quarantasette anni fa, veniva promulgato lo Statuto dei Lavoratori, che avrebbe dovuto salvaguardarci nel tempo e che oggi, invece, viene continuamente offeso. Era il 20 maggio 1970, infatti, quando la legge 300/1970 – conosciuta anche come Norme sulla tutela e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento – fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Fu approvata alla Camera il 15 maggio con i 217 voti favorevoli della maggioranza – democristiani, socialisti unitari e liberali – e dei repubblicani. Missini, PCI e PSIUP, invece, si astennero. Per quanto riguarda il Partito Comunista, esso, pur essendo ovviamente d’accordo con la previsione di un corpo normativo specifico per il Lavoro, rinunciò a esprimersi in quanto riteneva inaccettabile la mancanza di tutele estese anche ai lavoratori delle imprese più piccole, quelle con meno di quindici dipendenti.

Il provvedimento fu, comunque, un enorme salto in avanti in materia dei diritti di lavoro, soprattutto per quel periodo, e diede attuazione a quanto previsto dalla Costituzione in materia. Occorre sottolineare che lo Statuto, scritto dai socialisti Giacomo Brodolini e Gino Giugni, non fu un regalo delle classi dirigenti, ma una conquista frutto di durissime lotte che non possiamo in alcun modo dimenticare. Esso prevedeva una serie di novità importanti – come quella che riteneva nullo il licenziamento senza giusta causa – purtroppo depotenziate e svilite nel corso degli anni dai cosiddetti “riformisti”. Ad esempio, l’art.18 sulla nullità del licenziamento illegittimo è stato letteralmente massacrato dalla Legge Fornero prima – che al posto del reintegro per i lavoratori ingiustamente licenziati ha avanzato delle semplici previsioni di un indennizzo economico – e dal Jobs Act del Governo Renzi poi, il quale, di fatto, con il cosiddetto contratto a tutele crescenti, lo ha totalmente falciato.

È ben strano notare che ad approdare a tali soluzioni spietatamente liberiste sia stato un partito – erede del PCI – che si ostina a dire di stare a sinistra e che invece sta ampiamente superando a destra, in nome di quello che viene spacciato come un necessario progresso. Si sta tornando indietro di decenni e chi prova a farlo presente viene subito etichettato come un parruccone comunista. I diritti non sono una moda passeggera e non possono essere calpestati, anzi devono essere difesi. Pare, però, che non si abbia più la forza di credere nella lotta e anche gli intellettuali che un tempo si battevano contro le stesse proposte, avanzate solo da persone diverse – Berlusconi per l’esattezza –, sembrano totalmente atrofizzati e spenti. Basti pensare che nel 2002, contro l’idea del Ministro del Lavoro Roberto Maroni di sospendere per quattro anni l’art.18, scesero in piazza circa tre milioni di persone. Oggi, invece, regna il deserto delle solitudini e degli egoismi. La nostra sinistra ha il merito di riuscire a posizionarsi bene sul tema dei diritti individuali, ma per quelli collettivi e di categoria, dove occorre fare coesione, sta miseramente fallendo, lasciando via libera ai nazional-populismi. Per non parlare poi dei sindacati, dei corpi intermedi, che hanno perso la fiducia dei cittadini.

E allora noi studenti, lavoratori, disoccupati, ci ritroviamo a essere eroi solitari, combattenti armati di poche risorse su un campo di battaglia che più di ogni altro necessiterebbe di un lavoro di squadra. Siamo istigati gli uni contro agli altri in una lotta tra ultimi che ci ottunde e ci porta a prendercela con chi sta peggio di noi. Questo è, per l’appunto, il gioco vincente della classe dominante, degli oppressori che ballano e speculano sul sangue sgorgante da un fratricidio.

Ma, come detto, siamo degli eroi, lo stiamo dimostrando, e allora possiamo avere ancora la capacità di capire bene chi è il nostro nemico e chi il fratello da spalleggiare. Ci aspettano importanti sfide per il futuro, non perdiamo tempo, uniamoci sull’esempio dei nostri padri. Crediamoci ancora noi “vecchi parrucconi”, amanti di una Costituzione che non vogliamo vedere superata e legati sempre all’idea di un’Italia che sia una Repubblica democratica fondata sul lavoro.

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