Le parole pronunciate di recente da Papa Francesco in materia d’aborto non sono nuove. Non solo perché ribadiscono la già nota posizione di condanna della Chiesa cattolica, ma perché il Pontefice le aveva già pronunciate – avvalendosi, peraltro, dello stesso repertorio linguistico – durante un’intervista esclusiva rilasciata a Canale 5 lo scorso inverno. Ciononostante colpiscono, ancora, come una doccia gelida.
Francesco, nel suo ormai consueto rituale dell’intervista rilasciata ai giornalisti sul volo di ritorno da uno dei suoi viaggi, si è rivolto alla questione con inusitata durezza: ha definito l’aborto un omicidio e chi pratica l’aborto un sicario, senza mezze parole. Si è soffermato, in una seconda parte dell’intervista, sul valore pastorale del perdono quale dovere cristiano eppure, come sottolinea Michela Marzano nel suo editoriale uscito per La Stampa a seguito delle dichiarazioni del Papa, queste frasi successive non riescono a lavare via l’amarezza, a impedire che si stringa il cuore per il dispiacere.
Marzano, anche lei senza mezze parole, non ha avuto paura di affermare che il Papa stavolta ha sbagliato. Noi siamo d’accordo. È uno sbaglio che spiazza per l’attenzione, nella comunicazione del Pontefice, alla scelta dei vocaboli e per la vicinanza spirituale e politica espressa da Bergoglio per i sofferenti e gli ultimi, per i reietti, gli abbandonati, gli emarginati. Tuttavia, a uno sguardo più cinico, le sue frasi non dovrebbero colpire o stupire poi tanto l’opinione pubblica poiché si limitano a reiterare con un linguaggio vivido un concetto cardine della religiosità cristiana. Non bisognerebbe agitarsi così tanto, dicono alcuni con un tono a metà fra il rassegnato e il canzonatorio, perché dall’istituzione secolare Chiesa cos’altro ci si può aspettare, in fondo?
Il punto, però, sta proprio nel fatto che il pontificato di Francesco si è quasi sempre distinto da ciò che è venuto prima, in termini di apertura. In una sua lectio magistralis sul linguaggio dei papi nella storia, Alessandro Barbero traccia brillantemente una demarcazione tra quelli del Medioevo, con il loro contrapporsi aggressivo e belligerante al potere temporale degli imperatori, quelli dell’epoca dei Lumi, ripiegati sul proprio piagnucolante rifiuto del cambiamento, a quelli del Novecento, divisi tra la paura dell’affermarsi del comunismo e poi, man a mano che il nostro mondo globalizzato ha preso la forma contemporanea, sempre più coinvolti nell’aspetto sociale del principio di carità e aiuto cristiano.
Bergoglio, con la sua voce diretta e le sue staffilate ai potenti della Terra – per credere alle quali, però, bisogna di quando in quando attuare una sospensione dell’incredulità e dimenticarsi che anche il Capo della Chiesa è un potente della Terra –, sembrava già farla, la rivoluzione, nella comunicazione papale di questo secolo. Ecco perché le sue parole sull’aborto feriscono anche più che se le avesse pronunciate un qualunque altro pontefice.
Nel definirlo come omicidio e chi lo pratica come sicario, poi, nonostante il suo specificare più avanti il contrario, Bergoglio fa politica eccome. Affermare in un Paese cattolico di radice e formazione che praticare un’interruzione volontaria di gravidanza equivalga ad accettare del denaro come sicario per sopprimere qualcuno ha un impatto politico e molto concreto sulle vite delle donne che si scontrano ogni giorno con l’obiezione di coscienza. Più del 65% dei medici ginecologi in Italia è obiettore, con punte del 90% in Molise. Il numero di medici obiettori impedisce già, di fatto, l’accesso al diritto all’aborto sancito dalla Legge 194. Ci interroghiamo, dunque, sull’impatto delle parole del Papa sul personale medico e sanitario cattolico che opera nel nostro Paese. Veniamo, poi, più specificamente, alla pericolosità della parola omicidio, che è duplice.
Anzitutto, si lascia ancora adito al pensiero di base che la donna sia creatura infida, specie quando si rifiuta di portare a termine il suo compito ultimo di madre. La prospettiva di una capacità e di una responsabilità d’azione sul proprio corpo e sulle proprie decisioni viene non solo scongiurata come diabolica, assassina, ma, proprio in virtù di questa presunta incapacità d’amministrarsi, giustifica e anzi auspica l’intervento altrui – dell’uomo o di Dio – per regolamentarla, delimitarla in nome di un bene superiore che alla donna è precluso o sconosciuto.
Sorvolando grossolanamente sulla soggettività della scelta d’interrompere la gravidanza – che può avvenire per le motivazioni più disparate frutto, anzitutto, di un intimo interrogarsi e struggersi che nessuno ha il diritto di giudicare –, le parole taglienti e spietate del Papa condannano indiscriminatamente tutte le donne e prestano il fianco alla retorica misogina da cui origina l’odio di genere. Chiamate assassine, dovrebbero poi rifugiarsi e trovare conforto in seno a un perdono pastorale che parte, però, dal presupposto della loro profonda colpevolezza. Alle marchiate omicide verrebbe concessa la presenza nel recinto con le altre pecore del Signore, e questo dovrebbe loro bastare.
Si aggiunga che le parole di condanna che Francesco riserva alle donne che abortiscono sono più dure di quelle con le quali esprime dolore rispetto ai femminicidi. In quel caso, il Pontefice ha parlato altrove di amore malato e di prepotenza. Allo stroncamento delle vite di donna, insomma, Papa Bergoglio cerca comunque di trovare una pezza, di leggerle sotto la lente del patologico. Un amante o un marito impazzito dalla rabbia, un conoscente o un vicino che perdono il lume della ragione per il desiderio di un amore non corrisposto.
L’uomo assassino lo comprendiamo, lo perdoniamo perché quando agisce non è in sé, non è il buon cristiano che ama, anche se ci teniamo a specificare che il suo peccato, il suo errore, derivino comunque da una deformazione dell’amore. Non lo chiamiamo manco assassino, a ben pensarci: ci si rivolge al femminicida con lunghe perifrasi come l’uomo in preda al raptus oppure descrivendo la relazione che intratteneva con la donna uccisa. Sulle vite private delle donne assassinate si abbatte la scure predatoria dei media, pronti a fare le pulci su qualunque aspetto, legame, atteggiamento femminile sospetto e, di conseguenza, trovare una giustificazione al gesto atroce.
L’ultima testimonianza di questo atteggiamento d’indulgenza nei confronti degli uomini che ammazzano le donne sono state le parole della giornalista Barbara Palombelli, secondo la quale dietro i femminicidi ci sarebbe la colpa femminile di esasperare l’uomo. Il femminicida è esasperato o malato d’amore, la donna che pratica un’interruzione volontaria di gravidanza è un’assassina senza beneficio del dubbio. Quante volte ancora dovremo indignarci, gridare, batterci il petto per il dolore, arrabbiarci prima che la nostra rabbia, la nostra indignazione, la nostra sofferenza si vedano riconoscere la stessa dignità della rabbia e della sofferenza maschile? Per quanto ancora il nostro diritto dovrà continuare a venire attaccato da uomini di potere, trincerati dietro la religione e la morale?