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L’Aquila: “Il movimento dei sogni” di Eleonora Calesini e Debora Grossi

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
2 Maggio 2019
in Billy
Tempo di lettura: 5 minuti
Share on FacebookShare on TwitterInvia su WhatsApp

Apparentemente niente sembra fuori posto. Tranne la terra. Dall’inizio dell’anno, si sono susseguite circa 179 scosse, ma la Protezione Civile, gli esperti, tutti i telegiornali che da giorni le dedicano qualche minuto dicono che non c’è alcun bisogno di allarmarsi. A fatica ma stanca, L’Aquila accosta le tende, è tempo di provare a dormire.

Tra una settimana sarà Pasqua. Molti giovani, quindi, incastrati dagli impegni universitari, preferiscono restare in città per evitare un inutile e stressante andirivieni. Ci sono gli esami da sostenere, domani, la paura di una possibile bocciatura supera persino il terrore di una catastrofe imminente. In fondo, basta spostare il letto in prossimità della porta di casa, fidarsi del proprio istinto e catapultarsi fuori al primo segnale. In fondo, basta dormire insieme, almeno per questa volta.

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Enza ed Eleonora si sorridono, poi chiudono gli occhi. A pochi metri da loro, in auto, al freddo di una notte che sembra diversa, Martina e Francesco, il suo ragazzo, restano in attesa dell’alba. La scossa grande l’abbiamo passata, ora tutto è in discesa. Le 3:32, però, non sono ancora arrivate.

Il movimento dei sogni è la storia di Eleonora Calesini, 30 anni oggi, 20 nell’aprile del 2009. Romagnola d’origine, abruzzese di adozione, è l’ultima persona estratta viva dalle macerie aquilane. Per quasi due giorni, è sopravvissuta tra il buio e il silenzio, lei che è nata sorda e può ascoltare soltanto il rumore dei suoi pensieri. Ancora adesso, come quella sera, quando va a dormire disattiva l’impianto cocleare che le permette di scoprire il caos del mondo. Parla di sé attraverso la penna di Debora Grossi, amica e coautrice di un volume appena pubblicato da Fandango Libri, un modo, diverso, di raccontare non la scossa, ma la ricostruzione.

Sono trascorsi dieci anni da quel giorno. Dieci da un telefono che squilla e una risposta che non arriva, dalla fretta di un padre che si riveste per attraversare l’Italia in auto e dall’attesa di una madre che sopravvive di informazioni frammentarie. Dieci anni da mani che scavano tra le macerie e la burocrazia. Eleonora è ormai una donna, padrona di una vita che ha iniziato a costruire prima del 6 aprile del 2009, straordinariamente brava nel perseguire i suoi sogni. All’epoca studente presso l’Accademia dell’Immagine di L’Aquila, oggi vive dietro la macchina da presa, lei che il cinema voleva farlo da sempre, da quando Star Wars era un regalo sotto l’albero di Natale. Il suo rapporto con Debora è nato sul set, la voglia di raccontare, forse, in quelle 42 ore di sospensione tra i due mondi, tra un esame da dare e un’esistenza da preservare. Sotto il cemento il tempo non passa, sopra vola.

Credo di essere così in basso da poter arrivare al centro della Terra. Magari la voragine si è aperta solo sotto di me e tutto è rimasto in equilibrio. Mi fa male la testa, la schiena e ogni singolo pezzo di corpo. Credo di essere a testa in giù. Ricordo che prima di addormentarmi avevo di nuovo malissimo alla gamba. Ora non sento più nulla, ora mi sembra di non avere niente a parte la testa, l’unico luogo in cui posso parlare a me stessa e sentirmi. Cosa è successo? È caduta la casa, è scoppiato il pianeta Terra? Sto vagando nello spazio oppure sono morta e questo è l’inferno? Dov’è Enza? Perché sono da sola qui, perché non c’è nessuno? Forse è finita, forse la vita è finita per tutti. Quello che sto vivendo è l’inferno o forse il purgatorio. Cosa sto dicendo? Io sono viva, i morti non soffrono. Io sto male. Mi fa male la schiena. Forse le mie gambe sono morte, forse loro sì, ecco loro non ci sono più. “ENZA”, urlo, o almeno credo. Le mie labbra si muovono, voglio che senta che sono qui vicino a lei.

Ma a non esserci più è Enza, giovane vita risucchiata dall’Atlantide d’Abruzzo. Parla anche di lei Il movimento dei sogni, di tutti quei ragazzi che da quella notte non possono più sognare o, forse, sognano per sempre. 309 è il numero totale delle vittime, 55 gli studenti fuori sede che non sono mai rientrati. L’Aquila era una città universitaria, ancora oggi le matricole le donano vita nuova. Come quella a cui Eleonora non ha mai rinunciato. 

“AIUTO.” Cerco di urlare più forte che posso. “AIUTO, SONO VIVA”. “AIUTO, IO ED ENZA SIAMO QUI”. Non so nemmeno come escano queste parole, non so nemmeno se si capisca quello che sto dicendo. Tutto si colora di bianco. Questa volta è la fine. Chiudo gli occhi accecata, mi fa malissimo. Li riapro a fatica e riesco a vedere le mie gambe, il pigiama azzurro. Poi lo vedo, è un uomo. Vedo i colori. Vedo la vita.

A salvarla, nell’aprile del 2009, è stato Claudio, uno degli eroi di quelle infinite ore alla ricerca di un segnale, di un respiro, di un movimento dei sogni che significasse futuro. Un futuro che, tuttavia, a distanza di dieci anni, ha mutato il volto non solo della città che era, ma anche delle promesse fatte. 

Un esempio ne è il mancato rifacimento delle case come delle scuole, di quei luoghi che rappresentano una ricostruzione pubblica che non parte nonostante i finanziamenti siano stati ampiamente stanziati, nonostante la politica abbia fatto i suoi proclami dimenticando l’identità di un singolo come di un’intera popolazione costretta a sperare in un oggi che sappia di ieri ma proiettato verso domani, quando, forse, l’odore delle macerie lascerà libere le narici di chi, ancora adesso, attende che i pezzi tornino insieme. 

Non si è fatto altro, in questo decennio, che parlare di resti, di riedificazione, di appalti, di telefonate ilari intercorse durante una tragedia sottovalutata ma prevedibile, di alloggi in legno messi su nell’illusoria speranza di una quotidianità semplice. Di personaggi che hanno gioito allo spaccarsi della terra, al crollare delle case, allo spegnersi della normalità. Nessuno, però, ha parlato di ricostruzione individuale, delle persone e delle loro vite. Ecco che, allora, Eleonora Calesini e Debora Grossi spostano le telecamere, puntano i riflettori sull’uomo e non più sulle cose, anche quelle lasciate al vento. Siamo un po’ rotti, ma siamo ancora qui, dicono gli aquilani. Ed è forse questo il messaggio de Il movimento dei sogni, una preziosa testimonianza di vita e di futuro.

Le lacrime si fanno strada sui volti di entrambi, la gioia esplode nei corpi di quei due uomini. Luigi corre dietro alla barella affannato ed emozionato. “Sono il padre”, urla a tutti mentre Roberto è già al telefono. “SONO IL PADRE”. La folla lo lascia avvicinare e tutti si allontanano leggermente per lasciar loro lo spazio per ritrovarsi. Sua figlia ha il volto radioso, sporco di polvere bianca ma ha un’aria sorridente e tranquilla. Quegli occhi tanto cercati ora fissano Luigi fin dentro alla sua anima. “Scusa babbo”. 

A fatica ma stanca, L’Aquila riapre le tende, è tempo di tornare a vivere.

Prec.

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