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La Napoli sotterranea: presenza e struttura

Francesca Testa di Francesca Testa
17 Novembre 2018
in Lapis
Tempo di lettura: 4 minuti
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Tra le diverse Napoli, visibili ed invisibili, che si possono ammirare, vivere, o più semplicemente “sentire”, una delle più suggestive e inquietanti è senza dubbio quella sotterranea. Una vera e propria città parallela, scavata senza soluzione di continuità per quasi tremila anni nel morbido e resistente tufo giallo: milioni di metri quadrati di vuoto che attraversano quasi tutti i quartieri a diverse profondità. 

In principio, nel III secolo a.C., i Greci aprirono le prime cave sotterranee per ricavare i blocchi di tufo necessari alle mura della loro Neapolis. Lo sviluppo imponente del reticolo nel sottosuolo, però, iniziò in epoca romana. L’esistenza di una città sottoterra, quindi, è legata alla conformazione morfologica e geologica del territorio partenopeo, composto dalla roccia tufacea che ha caratteristiche di leggerezza, friabilità e stabilità del tutto particolari. Le prime trasformazioni della morfologia del territorio, avvenute a opera dei Greci a partire dal 470 a.C., diedero inizio alla crescita di quel mondo affascinante che è la Napoli sotterranea. Tali trasformazioni furono dettate originariamente anche da esigenze di approvvigionamento idrico, che portò alla creazione di cisterne sotterranee adibite alla raccolta di acque piovane oltre che dalla necessità di recuperare materiale da costruzione per erigere gli edifici di Neapolis.

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Grandi ingegneri e urbanisti, i Romani dotarono la città di una rete di acquedotti complessa, alimentata da condotti sotterranei provenienti dalle sorgenti del Serino, fonte posta a 70 km di distanza dal centro di Napoli. Altre condutture dell’acqua di età augustea arrivarono fino a Miseno, per alimentare la Piscina Mirabilis, che funse da riserva per la flotta. Nei secoli successivi l’espansione della città portò alla realizzazione di un vero e proprio acquedotto che permise di raccogliere e distribuire dovunque in città acqua potabile grazie a una serie di cisterne collegate a una fitta rete di cunicoli. Durante il dominio romano la struttura originaria fu ampliata e perfezionata, tuttavia, nel VI secolo, la città andò soggetta a tremende invasioni barbariche, di cui la più massacrante fu quella di Totila, il violento re degli Ostrogoti, che volle rivendicare il dominio in Italia. Nel corso delle feroci devastazioni non risparmiarono nemmeno l’acquedotto, che fu completamente distrutto, finché non se ne persero le tracce nel XIII secolo a causa della calata nello Stivale di Corrado Svevo. Questi, con un potentissimo esercito, dichiarò guerra a Carlo D’Angiò per la conquista del trono di Napoli, ma finì per “lasciarvi la testa” nella famosa Piazza Mercato.

Di certo, nel 1300, la città non aveva più il suo grandioso acquedotto, non ne restavano altro che spezzoni di canale rimasti all’asciutto. Nel corso del regno angioino, iniziato nel 1266, la città conobbe una nuova grande espansione urbanistica cui, ovviamente, corrispose un incremento dell’estrazione del tufo dal sottosuolo per costruire nuovi edifici. L’episodio confermò una peculiarità di Napoli: quella di essere generata dalle proprie viscere, con i palazzi che sorgono immediatamente sopra la cava che ha fornito il materiale da costruzione.

Un altro episodio importante risale al XV secolo, di fatti Benedetto Croce nel suo libro Storie e leggende napoletane scrive: Mi tornava più volte innanzi, stupefacente e romanzesco, il racconto del modo in cui penetrarono in Napoli, a lungo invano assediata, le schiere di Alfonso D’Aragona, per un canale sotterraneo. E aggiunge ancora: Oggi gli antichi acquedotti hanno deviato, e qualche cronaca racconta che lo stesso re Alfonso fece distruggere l’andito fortunoso e istituì una guardia notturna per esplorare la città. Infatti, proprio nel 1442, Napoli, strenuamente difesa da Renato D’Angiò, fu conquistata da Alfonso D’Aragona grazie a dei passaggi sotterranei. Solo nel 1885, dopo una tremenda epidemia di colera, venne abbandonato l’uso del vecchio sistema di distribuzione idrica per adottare il nuovo, che ancora è in funzione.

L’ultimo importante intervento sul sottosuolo partenopeo risale alla Seconda Guerra Mondiale, quando per offrire alla popolazione rifugi sicuri dai bombardamenti si decise di adattare le strutture sotterranee dell’antico acquedotto alle esigenze dei cittadini. Furono allestiti così 369 ricoveri in grotta e 247 ricoveri anticrollo. Un elenco ufficiale del Ministero degli Interni del 30 aprile del 1943 riporta la lista dei 429 siti che i napoletani poterono usare per ripararsi durante le incursioni aeree del nemico. Nell’elenco che è suddiviso per zone compaiono diverse informazioni: il numero progressivo per quartiere, l’indirizzo degli accessi, lo stato del ricovero, la capacità espressa in persone ospitabili e la tipologia, cioè se era in grotta oppure anticrollo. Erano considerati anticrollo quelli realizzati nei sotterranei degli edifici.

L’allestimento dei ricoveri portò a un ulteriore frazionamento dell’antico acquedotto. Chilometri e chilometri di cunicoli, pozzi, cisterne, ipogei e cave greche, gallerie varie di epoca romana, catacombe, passaggi segreti. Sino ad oggi sono state rilevate e cartografate circa 700 caverne, (tutte artificiali) ma secondo gli esperti ne dovrebbe essere almeno altrettante, non ancora scoperte. Gli speleologi che, da circa trent’anni cercano di svelarla, hanno calcolato che almeno il 60% dei napoletani vive e opera sopra le cavità. Secondo le più recenti stime degli esperti, molto rimane da scoprire: ci sarebbero almeno altri due milioni di metri quadri di vuoto ancora non rilevati. Solo nel quartiere Stella sono state rinvenute 62 grotte artificiali per un totale di 160mila metri quadri di vuoto. Altre 86 caverne sono a San Carlo all’Arena, 85 all’Avvocata, 34 a San Ferdinando e altrettante a Chiaia, 32 a San Lorenzo e 28 a Posillipo.

Prec.

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