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La figura urbana dello straniero nella società dell’incertezza: guardare senza vedere (pt. 2)

Annarita Genova di Annarita Genova
11 Maggio 2023
in Lapis
Tempo di lettura: 5 minuti
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Dovunque il vagabondo vada, egli è un estraneo; non può mai essere il “nativo”, colui che è “sistemato”, colui che è “radicato” (troppo fresco è il ricordo del suo arrivo – ossia, il ricordo del fatto che egli era altrove fino a poco prima). straniero

Il vagabondo, secondo il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman, è colui che ha caro il proprio “essere fuori posto”, che non si concede mai il lusso di ambientarsi perché si aspetta di andare presto altrove; è una libertà del non-abitare la sua che agli altri fa paura, perché disordinata e senza padroni, ma che, rispetto al passato, è diventata sempre più praticata, tanto che adesso è probabile che le persone che egli incontra nei suoi viaggi siano altri vagabondi.

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Così come Virginia Woolf vagabondava per Londra con il pretesto di comprare una matita, Charlotte Brontë provava la stessa estasi di libertà e di gioia a passeggiare per la città senza una meta precisa, indossando le vesti di flâneuse per addentrarsi nel flusso urbano:

Seguire il caso, incontrare la vita ovunque il caso possa condurre, e incontrare in ogni luogo la vita che passa oltre (esporsi alla vista altrui abbastanza a lungo da divenire oggetto di attenzione svagata, ma non abbastanza a lungo perché quell’attenzione si restringa, si soffermi, comprometta la propria libertà di seguire il caso; abbastanza a lungo da lasciare libera l’immaginazione, ma non abbastanza da sottoporre qualsiasi cosa sia stata immaginata ad una ostinata e precisa controprova.

Attraverso un’indagine dell’esperienza urbana proposta da Henning Bech, Zygmunt Bauman (nel suo saggio La società dell’incertezza) descrive l’impulso e le ragioni che hanno portato il flâneur, lo straniero in patria per eccellenza, a essere il simbolo di ogni metropoli propriamente detta.

Detto anche “uomo dello svago” e collocato all’interno del gioco del mondo, il soggetto proprio della società dell’incertezza è un giocatore e, in quanto tale, sa che nulla è “prevedibile o controllabile”, ma nemmeno “del tutto immutabile o irrevocabile”. Si assume i rischi della partita, o meglio, di una serie di partite che, come “piccoli universi a sé” si susseguono in significati separati, e il compito del giocatore è quello di essere, nel gioco come nella vita, sempre un passo in là, “una mossa avanti”, in modo da anticipare e individuare le mosse dell’avversario.

Così, nel suo gioco della vita, lo straniero (flâneur, vagabondo, giocatore: qui tutti sinonimi) stabilisce con il mondo una distanza necessaria affinché possa muoversi con la libertà di selezionare intorno a lui gli oggetti di interesse e quelli di non interesse. La stessa strategia è da lui applicata nel gioco delle relazioni, dove sembra impegnarsi addirittura di più nell’impedire all’Altro qualsivoglia prossimità: l’esperienza piacevole trova la sua origine esattamente nel distanziamento reciproco, cioè nell’assenza di responsabilità e nella certezza che, qualsiasi cosa accada tra stranieri, non comporterà conseguenze (notoriamente difficili da prevedere) in grado di durare più a lungo della momentanea ma piacevole esperienza (solo in apparenza facile da controllare).

Straniero significa nello specifico superare i confini prestabiliti e vivere un presente che possiamo definire episodico, svincolato da ogni passato e da ogni futuro; e una città realizzata da stranieri si configura, dunque, come un territorio ambivalente fatto di vuoti e distanze. Ambivalente perché lo straniero deve arginare o rendere innocua la minaccia che nasce dalla condizione altrettanto incerta degli altri stranieri, ma nel frattempo, per essere felice, deve saper vivere intensamente l’avventura generata dall’incerta definizione della propria meta; eccitato e paralizzato, lo straniero nella sua città deve fare i conti con lo spazio vuoto che ha creato attorno a sé e mantenere quell’equilibrio tra opportunità e pericoli, come un funambolo dell’identità.

Secondo Bauman, dunque, il primo ad aver sperimentato questo tipo di esperienza che abbiamo definito funambolica è stato il flâneur e, nello specifico, egli è stato il primo a smontare il flusso temporale in “frammenti sconnessi” per poter “guardare senza vedere”, per poter “toccare senza trattenere”, per poter “accarezzare senza soffermarsi”.

Secondo gli stessi schemi, egli trasmigra nella metropoli postmoderna e consumistica e prosegue nel suo cammino solitario da straniero, entrando e uscendo dalle relazioni, senza approssimarsi a un reale contatto con nessuno, senza impattare con la vita degli altri seppur appropriandosi, nel passaggio, di pezzi delle loro storie. Ma all’orizzonte c’è sempre una nuova opportunità, un mutevole desiderio e un nuovo stimolo senza impegno che lo spinge a imboccare il prossimo sentiero.

Per Zygmunt Bauman, la condizione per conservare il benessere in questa terra sempre mutevole di anonimi vagabondi è dimenticare, è coltivare “l’arte di perdere il ricordo”, per la quale ogni nuovo evento e persona entra ed esce senza senso dal campo visuale dell’obiettivo fisso dell’attenzione, e dove la stessa memoria è come un videotape: sempre pronto ad essere cancellato per registrare nuove immagini, e dotato di una “garanzia a vita” solo grazie alla mirabile capacità di autocancellarsi senza fine.

Stagliato sullo sfondo postmoderno, la figura dello straniero immerge così se stesso in attimi di esperienze e isola il presente, lo appiattisce, lo piega e ritaglia in modo tale che non possa mai subire le influenze della storia o le responsabilità del futuro. La responsabilità più grande dalla quale egli rifugge è l’accoglienza dell’Altro, molto probabilmente perché è egli stesso insicuro della propria appartenenza a questo mondo; perché non sapendo appartenere crede di non poter accogliere.

Nel caos della condizione umana postmoderna, dunque, questi instaura con il prossimo una sorta di relazione disimpegnata, totalmente disincantata, nella quale vige il giuramento sottinteso della “non perseveranza e non fedeltà a niente e a nessuno”. Non esiste il “per sempre”, non esiste l’“uno-e-solo” e il profondo attaccamento è da escludere perché potrebbe fare del male quando arriva il momento di staccarsi dal compagno, come certamente succederà.

Quando arriva il momento di lasciare di nuovo libera l’attenzione per cogliere un nuovo significato (sempre superficiale) che lo aspetta al di là del confine del qui, lo straniero, fuoriuscendo dall’identità nella quale si era momentaneamente appoggiato, può così indossarne una nuova come se fosse un “cambio di costume” (Christopher Lasch, La cultura del narcisismo) e attraversare altre porte lasciate aperte, altre stanze intraviste da lontano, altre esistenze anonime.

Lo straniero poi torna a casa e di fronte allo specchio si domanda, di nuovo, per un attimo: ma io chi sono? Poi però si distrae e rimanda a un tempo sconosciuto, che chissà a chi apparterrà, una questione che non ha alcuna voglia di affrontare. Troppa fatica, troppo disincanto.

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