Dal 3 al 14 dicembre, nella città di Katowice, in Polonia, si svolge la Cop24, la ventiquattresima conferenza a cui prendono parte i 189 Paesi membri della UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change), la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, conosciuta anche come Accordo di Rio e firmata nel lontano 1992 al Summit per il pianeta Terra di Rio de Janeiro. Riusciranno, stavolta, i rappresentanti degli Stati del mondo a trovare l’accordo definitivo sul percorso operativo comune per contrastare gli effetti della mutazione del clima dannosa per la salute dei cittadini del globo terracqueo o prevarrà la logica politica del sovranismo incentrata sulla difesa degli assetti economici e sociali nazionali, quasi sempre in contrapposizione alle istanze richieste dalle istituzioni sovranazionali?
Durante il discorso tenuto alla cerimonia inaugurale della conferenza, il Presidente polacco Andrzej Duda ha affermato che la Polonia non può rinunciare al carbone perché costituisce una materia prima fondamentale per garantire la sovranità energetica del Paese. Una dichiarazione raggelante che va in direzione opposta al richiamo espresso da António Guterres: «Quella del clima è già oggi una questione di vita o morte per diverse aree dell’intero pianeta», ha ricordato il Segretario generale delle Nazioni Unite. In effetti, nella pubblicazione del rapporto redatto dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), gli scienziati dell’osservatorio sui cambiamenti climatici, istituito proprio dall’organizzazione sovranazionale degli Stati del mondo nel 1988, hanno confermato che, per limitare l’aumento della temperatura media globale a 1.5 gradi, gli organismi governativi di tutti i Paesi dovranno ridurre le emissioni di CO2 nell’atmosfera nella misura del 45% entro l’anno 2030.
Per accennare soltanto alla lunga storia delle Conferenze delle parti sui cambiamenti climatici, dalla prima Cop di Berlino del 1995, ricordiamo che l’accordo più importante si ebbe con la scrittura del famoso quanto disatteso Protocollo di Kyoto del 1997, nel quale i firmatari si ripromettevano di ridurre e stabilizzare nel tempo le emissioni di gas serra. Soltanto alla Cop21 di Parigi di tre anni fa, però, sono state decise le azioni operative da adottare entro il 2020 per affrontare il global warming (surriscaldamento globale), cercando di contenere l’aumento della temperatura media del pianeta entro la soglia massima di 2 gradi, rispetto ai livelli preindustriali, al fine di prevenire eventi climatici estremi. Producendo una road map, in accordo con le varie governance politiche mondiali, si è tentato, dunque, di rendere operativa e di controllare la realizzazione dei programmi, tenendo conto delle possibilità politiche e delle caratteristiche economiche e sociali dei diversi Paesi. In questi giorni, invece, a Katowice, città della Slesia famosa per le sue miniere di carbone e, quindi, tra quelle più inquinate d’Europa, le migliaia di delegati degli Stati aderenti alla conferenza mondiale sul clima stanno tentando di trasformare nuovamente gli accordi scritti su carta in decisioni governative e pratiche industriali e ambientali reali. Intanto, all’ultimo G20 svoltosi a Buenos Aires poco più di una settimana fa, i Paesi firmatari dell’impegno parigino hanno ribadito l’irreversibilità dell’intesa raggiunta, mentre i rappresentanti USA, sulla scorta delle già note posizioni negazioniste dell’amministrazione Trump, hanno dichiarato la propria decisione di ritirarsi dall’accordo di tre anni fa.
Ancora una volta, le logiche affaristiche dei complessi industriali e finanziari nazionali prevalgono sui problemi legati alla salute delle popolazioni umane e alla più generale salvaguardia dell’ambiente naturale. Eppure, decarbonizzare la produzione industriale non serve soltanto per contenere il fenomeno dell’effetto serra, prodotto in larga parte dalle eccessive emissioni di CO2 causate dalle attività produttive, ma può portare benefici economici e sociali. Un’economia post-fossile, che investa nella ricerca per l’uso delle fonti di energie rinnovabili e nella programmazione di una maggiore efficienza energetica, può creare nuove attività produttive e milioni di posti di lavoro, evitando, soprattutto, centinaia di migliaia di morti per patologie causate dall’inquinamento atmosferico entro il 2030.
Il Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi ha affermato che ci vorranno almeno due generazioni, ovvero vent’anni, per salvare il pianeta dai cambiamenti climatici e dagli effetti devastanti che questi avranno sulla salute dell’uomo e dei territori. La Commissione Europea per il clima, intanto, si è posta l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica, vale a dire l’azzeramento di emissioni di CO2 entro il 2050, con interventi radicali nel campo delle energie e della mobilità pulita per una diversa organizzazione della vita quotidiana dei cittadini. Il tempo stringe, insomma, per tentare di evitare la crisi climatica ed ecologica prevista per la metà del secolo, cambiando lo stile di vita individualista, energivoro e consumistico del mondo occidentale, da tempo adottato come modello sull’intero pianeta Terra.