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“La buona educazione degli oppressi” di Wolf Bukowski: da ultimi a colpevoli

Giusy Santella di Giusy Santella
30 Luglio 2020
in Billy
Tempo di lettura: 4 minuti
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Innumerevoli volte ci sarà capitato di utilizzare la parola decoro senza però riuscire a individuare la sua precisa definizione, pur essendo oramai entrata nel linguaggio comune ma soprattutto nei concetti chiave della politica contemporanea. Ne La buona educazione degli oppressi – edito da Alegre e pubblicato alla fine del 2019 – Wolf Bukowski tenta di ricostruirne la storia, arrivando però alla conclusione che si tratta di un’idea senza parole, nel senso indicato dallo storico Furio Jesi: un concetto che non può essere messo in discussione poiché rimanda a valori a loro volta non discutibili e già presenti nel retaggio culturale di chi li condivide ma soprattutto di chi è chiamato ad assorbirli.

decoro bukowskiNella sua lucidissima analisi politica e sociale, l’autore ripercorre le tappe che hanno portato il concetto di decoro a diventare mero strumento e veicolo dell’ideologia della classe dominante, che se ne è servita per alimentare il processo di criminalizzazione della povertà e della marginalità a cui abbiamo assistito in questi anni. Nel capitolo uno del saggio, Bukowski fa riferimento a un lavoro propedeutico al decoro e alla sicurezza, ossia la cancellazione della riconoscibilità delle classi sociali. Il politologo Edward Banfield – più tardi consigliere di Ronald Reagan – nel descrivere la lower class, ossia la classe sociale al di sotto di quella lavoratrice, utilizza delle categorie comportamentali: la povertà dipende infatti dai comportamenti degli stessi poveri, che vivono di momento in momento, passano da un impiego non qualificato a un altro, non fanno volontariato e non votano, a meno che non siano pagati. All’interno di questa narrazione, implementata negli anni Ottanta da Charles Murray, il welfare è un incentivo al fallimento, mentre la sua eliminazione costringerebbe l’under class al lavoro.

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Simili concezioni prendono piede anche in Italia e la povertà e la marginalità vengono sempre più colpevolizzate, man mano che allo Stato sociale si sostituisce quello penale e crescono le repressioni nei confronti dei cosiddetti disordinati. La prima volta che il legislatore tenta di dare una definizione del concetto di decoro è con il Decreto Minniti, seppur con scarsi risultati, poiché finisce per ricondurlo ancora una volta alla sicurezza: due nozioni che si rafforzano a vicenda senza però chiarirsi in alcun modo: si intende per sicurezza urbana il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, […] con l’eliminazione dei fattori di marginalità ed esclusione sociale e l’affermazione di più elevati livelli di convivenza civile. Se sicurezza e decoro finiscono per sovrapporsi, essi non sono altro che educazione e civiltà, che però si manifestano attraverso il decoro stesso.

Per cogliere a pieno quanto l’autore tenta di trasmettere riportiamo un suo esempio: perché sdraiarsi su una panchina sarebbe indecoroso e incivile? Perché una persona civilizzata non lo farebbe. Perché una persona civilizzata non lo farebbe? Perché è indecoroso e incivile. Ed è questo il ragionamento – se così si può chiamare – che c’è alle spalle delle cosiddette panchine antibivacco, fornite di braccioli che impediscono di sdraiarsi, prive di schienale, e che sono un topos del decoro, quintessenza del securitarismo neoliberale, il cui nemico è il senza fissa dimora che cerca ristoro su un bene che è invece a disposizione solo di chi è uscito educatamente a fare una passeggiata.

Nell’abisso senza fondo che conduce alla maggiore considerazione delle fiorerie e delle panchine rispetto alle vite umane, ovviamente fondamentale è stato il ruolo della politica nostrana, e non solo di quella di destra che certi valori rivendica come propri. La responsabilità maggiore è stata proprio quella della sinistra istituzionale, e in particolare delle amministrazioni locali, che si sono lasciate irretire anch’esse dal sogno del decoro e dell’ordine nel ricordo dei bei tempi andati, oramai mitizzati completamente. Ci si illude che la sicurezza non sia né un concetto di destra né di sinistra, ma in realtà essa, nascondendosi dietro il feticcio legalitario, assume i contorni del militarismo, della difesa dei confini, del contrasto alle stesse lotte sociali, a meno che esse non provengano da una comunità a-conflittuale e passivamente fedele alle istituzioni, che non fa altro che desiderare e chiedere ciò che esse hanno già in serbo per lei.

E poiché la percezione conta più dei dati reali, i cittadini devono avere paura e devono averne così tanta da gettarsi tra le braccia di politici pronti a offrire loro un’interessata rassicurazione autoritaria. Così, pur di ottenere la salvezza da nemici creati ad hoc per le occasioni, i diritti civili sono sottoposti a una costante pressione, riproducendo quello che Karl Marx aveva già precisamente individuato quando, riferendosi alla libertà di stampa, personale, di parola, di associazione dichiarate dalla Costituzione francese del 1848, parlava di libertà proclamate come diritto assoluto, ma con la costante nota marginale che esse erano illimitate nella misura in cui non  venisse loro posto un limite dalla sicurezza pubblica o dalle leggi. Con un percorso per nulla osteggiato, i marginali diventano colpevoli, i poveri meritevoli di essere tali, in una guerra tra ultimi che sembra essere solo all’inizio.

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