Nel 2010, una delle più prominenti case di moda italiane – Mariella Burani Fashion Group – crolla su se stessa. La holding si è affacciata sul mercato negli anni Sessanta come marchio d’abbigliamento per bambini, arrivando a espandersi e affermarsi, nei primi 2000, sul mercato internazionale della moda femminile a 360 gradi: al di là degli abiti, anche fragranze e accessori. All’apice del successo, il gruppo emiliano, oltre alle boutique monomarca, differenzia i suoi affari acquisendo altri brand e stipulando licenze con altrettante istituzioni del fashion. Il motore, il cuore della società, è la creatività della stilista Mariella Arduini in Burani, al timone della nave ci sono suo marito Walter e il figlio Giovanni. Un’azienda che nasce e cresce come impresa familiare e che riflette, nelle linee simmetriche degli abiti e nella selezione sempre equilibrata delle stoffe e dei materiali, un’eleganza femminile a contatto con la tradizione, con le radici. Poi, il crack. Walter e Giovanni accusati e condannati per bancarotta fraudolenta.
Le solide fondamenta della maison si rivelano essere un impalpabile castello di carte: i titoli in borsa, gonfiati da una società fantasma e ricomprati dallo stesso gruppo per mantenere alto il valore delle azioni. Un buco di 480 milioni di euro. Nelle cronache che seguono, Mariella poco a poco scompare dalla storia, inghiottita dall’inchiostro e dalle vicende giudiziarie al centro delle quali si trovano il figlio e il marito. Ritenterà la carriera di stilista con il cognome da nubile, otto anni dopo. A essere travolti dal crollo ci sono anche i destini delle centinaia di operai, sarte, impiegati del gruppo Burani, trovatisi inaspettatamente senza lavoro. Il fallimento dell’azienda a ridosso della critica voragine finanziaria del 2008 va contestualizzato nell’ottica dei crolli e fallimenti a catena nel sistema produttivo reggiano, il dissesto che ne deriva lascia il territorio impoverito, svuotato di capitali e persone.
L’ora muta di Simone Cerlini (Alter Ego Edizioni) prende spunto dal crack del colosso di Cavriago e restituisce una storia che parla di legami, d’Italia, del decadimento strisciante che ci accompagna da decenni e che lascia dietro di sé il silenzio. Una storia, anche, di speranza. Sul suo sito web, Cerlini scrive: Non ho la presunzione di esprimere concetti universali. Racconto quello che ho visto e che vedo. Quel che scrivo, dipende dal mio punto di vista. Della mia famiglia, della mia terra, della mia gente. Al suo intento il romanzo tiene strenuamente fede, alternando focus e generi narrativi con una prosa ora asciutta ora ricamata di aggettivi. Camilla Doveri è protagonista, narratrice e collante della storia. Seguiamo la sua infanzia sofferta, la sua ritrosia degli anni universitari vinti dall’attrazione per una compagna di corso, i suoi primi passi nel mondo del lavoro. Nonostante Camilla sia un personaggio disilluso in partenza, ogni tappa della sua vita è come scendere uno scalino che la porta più in basso, più a fondo, più vicina alla verità corrotta dei giochi di potere di pochi che manovrano le vite di tanti.
Oasi di salvezza e amore è, per lei, il padre Giorgio, dirigente di successo di una holding di moda, coinvolto in una serie di affari loschi che lo porteranno a prendere la decisione di sparire in un paesino di poche anime, di ricominciare la vita a contatto con la terra e il mare, un po’ per espiare il suo peccato, un po’ per la necessità di ritrovare un equilibrio per sé e per la figlia. Con Giorgio, Camilla ha un rapporto conflittuale fatto di aggressioni a brutto muso, ma anche della pace che si prova dentro solo con chi ci conosce e ci ama esattamente per come siamo; un rapporto di segreti inconfessabili e di confidenze scambiate in una barca traballante, al largo della costa. Alla figura paterna Camilla si ribella, reagisce, pur cercando sempre, nel padre, appoggio, riconoscimento, fiducia. Sono entrambi feriti dalla vita, Camilla e Giorgio, entrambi masticati e risputati fuori dal mondo che spolpa, sfrutta, distrugge, consuma. La distruzione e la bellezza sono anche intorno a loro: nell’incuria della costa, nelle strade isolate di campagna sorvolate dalle cicogne, nel progressivo degrado della periferia industriale del reggiano, che ospita relitti umani e architettonici. Se quello di Camilla potremmo considerarlo un percorso di formazione, ciò che accade intorno a lei attraversa il procedimento inverso: tutto progressivamente sfiorisce.
La parabola del crack Burani diventa, ne L’ora muta, il sintomo manifesto di una malattia profonda e diffusa. Qui, la forma stilistica del romanzo lascia lo spazio a una narrazione fatta di carteggi, assume l’aspetto del docufilm e del giallo. I frammenti apparentemente scollegati scatenano, nella completezza del mosaico, una reazione a catena di rivolgimenti. Di tragedia, sconfitta, fallimento. Quel fallimento che è entrato sotto pelle a tantissimi giovani della generazione Ottanta-Novanta, fiaccati dai contratti a progetto, dagli stage non pagati, dal clientelismo, calpestati come lavoratori e come persone dalle aziende grandi e piccole, dalle amministrazioni di qualsiasi colore politico. L’ora muta è, allora, quella che precede e preannuncia la fine, quell’attimo che separa l’azione dalla rassegnazione.
Alla fine del romanzo di Cerlini, senza voler fare anticipazioni, uno spiraglio di speranza c’è. Proprio mentre tutto intorno a noi avvizzisce e decade, proprio mentre stipule di patti di potere silenziosi continuano a erodere le coste della nostra giovinezza e del nostro futuro, non dobbiamo ridurci al silenzio. Dobbiamo osservare, verificare, raccontare, farci carico della realtà e, finalmente, provare a cambiarla.
Proprio mentre tutto intorno a noi avvizzisce e decade, proprio mentre stipule di patti di potere silenziosi continuano a erodere le coste della nostra giovinezza e del nostro futuro, non dobbiamo ridurci al silenzio. Dobbiamo osservare, verificare, raccontare, farci carico della realtà e, finalmente, provare a cambiarla.
Centro. Rileggo questa recensione e mi emozione. Essa stessa ha a che fare col riscatto. Grazie
Sono grata di questo commento. Per un recensore, sentirsi dire dall’autore di aver centrato il punto è una bella emozione.
Grazie ancora,
Marina Finaldi