Da qualche giorno, stare a casa senza possibilità di uscire, se non per motivi eccezionali da documentare, così come richiesto dal noto decreto finalizzato a contrastare il coronavirus, sembra vissuto con sofferenza, pur consapevoli della necessità di contenere il più possibile l’espandersi di un male che di punto in bianco ha sconvolto vite sottraendo agli affetti familiari, amici, conoscenti, sconosciuti che una fredda contabilità quotidiana ci mostra attraverso un contatore impietoso, sempre più veloce, nella speranza che cominci a rallentare la sua corsa.
Persone come numeri, siano esse contagiate, guarite o, peggio, decedute. Una sensazione di tristezza e di grande preoccupazione vissuta tra le mura di una stanza, due, tre, forse anche quattro, che il bombardamento di notizie alimenta inesorabilmente. Ciononostante, vogliamo a tutti i costi conoscere le cifre, quei numeri dietro i quali si nascondono gli altri, per comprendere l’andamento di un virus che è dietro l’angolo e minaccia tutti. Eppure restare in casa sembra diventato anch’esso un male che le generazioni del dopoguerra non conoscono, prova ne è la continua richiesta di puntualizzazioni, di circolari esplicative per sapere quale possa essere un motivo, anche uno solo, il pretesto per uscire da quella che sembra una prigione, seppur comoda tra letti, divani, poltrone e tv in tutti gli ambienti.
La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare. Quanta ragione aveva Piero Calamandrei, che quella mancanza di libertà la visse con tutta la generazione del suo tempo, una libertà conquistata, non acquisita per diritto, goduta come l’aria, quell’aria che quando comincia a mancare opprime.
Il senso naturale di ribellione a delle disposizioni del governo che appaiono in prima istanza eccessive, in particolare in quelle zone del Centro-Sud dove i numeri sono ancora contenuti, cede il passo alla ragione, al senso di responsabilità e anche alla paura che prepotentemente gioca la sua parte creando un clima di tristezza maggiormente avvertito nel nostro Meridione, dove sul vocio continuo e il rumore crescente nei vicoli, nelle vie, nelle piazze, è calato il sipario creando un silenzio insolito, quasi assordante, in quello che si è trasformato in un deserto urbano.
Restare a casa, però, è diventato l’imperativo indispensabile per evitare qualsiasi propagazione del contagio che ormai sta attraversando il mondo, una condizione indispensabile che il grande popolo cinese ha sperimentato con risultati soddisfacenti ottenuti in tempi rapidissimi. Così, trascorsi soltanto pochissimi giorni dal provvedimento di estensione a tutta l’Italia di una zona protetta, la rete si è subito organizzata per quel ritrovarsi, prima nelle piazze e oggi dai balconi e dalle finestre di casa, cantando e suonando insieme in prevalenza quell’inno nazionale presente unicamente nelle competizioni sportive e che, invece, sere fa è stato il collante per sentirsi più vicini e allontanare per qualche istante paure e preoccupazioni.
Insofferenza e agitazione, nuove abitudini e contatti familiari ritrovati, case trasformate parzialmente in sedi di lavoro e di studio attraverso quel mezzo tanto adorato quanto maledetto senza il quale, in particolare in questa condizione, il proprio appartamento si trasformerebbe in cella di isolamento. Quello che raccontiamo sembra uno scenario surreale, stiamo vivendo un’esperienza del tutto nuova anche per i più anziani, con regole rigorose che immagino come possano apparire a quel mondo che è fuori, ai circa 50mila senza dimora che nel nostro Paese riempiono porticati, stazioni e giardini e che una casa non sanno neanche cosa sia o, nel migliore dei casi, è presente soltanto nella memoria. Senzatetto che nella sola città di Milano, una delle zone maggiormente colpite dal coronavirus, sono oltre 12mila contro i circa 8mila della Capitale. Varrebbe la pena, quindi, evitare isterismi e intolleranze e convincersi della propria condizione di privilegio.
Quando tutto avrà fine, ci sarà il tempo per rimarginare ferite, riparare i danni dopo la tempesta, riaprire e far ripartire a pieno ritmo fabbriche e ogni attività lavorativa, raccogliere i cocci di quella piccola economia fatta di artigiani, ristoratori, pizzaioli, titolari di bar, di quei ragazzi dietro i banconi a fare caffè, a servire ai tavoli o a sfornare pizze – i cui compensi e inquadramenti lavorativi sarebbero tutti da approfondire – e che di nessun ammortizzatore sociale avranno nel frattempo goduto. Non tutti torneranno ai loro posti di lavoro perché ci vorrà molto prima che si riempiano nuovamente strade e centri storici e che aerei, treni e navi tornino ai ritmi, se non precedenti, almeno necessari per far ripartire l’industria del turismo.
Non conoscendo quale sarà l’evoluzione del male, i disastri da riparare saranno comunque proporzionati ai tempi della crisi, ci saranno macerie da rimuovere e tanto da ricostruire, occorrerà avere buona memoria – di certo non una qualità degli italiani – su quali saranno stati i Paesi solidali e quali quelli delle chiusure e dei rifiuti, quali i politici e amministratori locali pronti a chiedere aperture e chiusure rigorose il giorno dopo, utili soltanto a racimolare consenso o richiesta di scuse per evitare incidenti diplomatici per le gaffe di qualche Presidente di Regione.
Ci sarà anche da chiedersi, poi, quali saranno stati i responsabili del graduale smantellamento del migliore sistema sanitario nazionale esistente al mondo con riduzioni di posti letto e personale, cancellando per qualche decennio concorsi a tutti i livelli per poi chiederne a migliaia in poche ore e versare lacrime di coccodrillo al cospetto di scene drammatiche di sanitari stremati e costretti a scegliere persino quale vita salvare. Torni la sanità a essere amministrata a livello centrale con criteri e scelte di equità, prima che il virus del regionalismo differenziato dal volto buono faccia danni irreparabili a scapito, ovviamente, di tutto il Sud Italia.
Cogliamo l’occasione del restare a casa, quindi, come una possibilità di cambiamento del nostro modo di vivere, riscoprendo le autentiche priorità, ciò per cui vale la pena lottare, restituendo tutto il tempo sottratto alla famiglia, al dialogo, all’approfondimento, alla lettura, all’interrogarsi sull’antico virus dell’indifferenza per ciò che accade fuori dalle nostre comode quattro mura che tanto mancano a quei 50mila invisibili che vagano, nonostante i divieti, nelle nostre città.
