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I “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci: una lettura (pt.2)

Redazione di Redazione
7 Febbraio 2022
in Rubriche
Tempo di lettura: 3 minuti
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Impressioni di prigionia dal Primo Quaderno

A volte mi domando perché, nei salotti del pensiero unico rosa confetto, alla G corrisponda l’opera omnia dell’ottimo Gramellini e manchi quella di Antonio Gramsci. Oppure perché il Gramsci “prigioniero” sia alla base dei Partiti del Lavoro di mezzo mondo e non più dei nostri. Domande alle quali non so rispondere. Però è chiaro che, oltre il marxismo, il Gramsci prigioniero raggiunge una immensità umana che lo rende fragilissimo, eppure universale. Quella capacità di farsi corpo e mente dei diritti negati e della potenzialità degli uomini di evolversi partendo dai bisogni e non dalle ideologie: una coscienza di popolo unita, formata e informata diventa imbattibile.

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La lenta miseria che azzanna il corpo, che porta la mente vicino alla resa. La voglia di lasciarsi andare in un angolo come una cosa. Si diventa vecchi in un colpo. Eppure, è proprio nella Resistenza alla compressione fascista dell’intellettuale Gramsci che esce l’uomo. L’esempio. L’icona alla quale aggrapparsi nei nostri momenti di difficoltà. Il cercare di correre dietro al vento per afferrare brandelli di verità e lasciarli andare verso qualcuno che è fuori. Qualcuno che aspetta, ma che non è detto che li riceva mai.

Il sentirsi spiato, umiliato, sottomesso provoca in Gramsci un’istintiva ribellione all’ovvio. Al suo stato di prigioniero ma, in chiave più generale, un’istintiva ribellione all’ingiustizia. Così tutti i Quaderni assumono il tono di un’insurrezione che è prima individuale e poi politica. Cancella, riscrive, annota, sovrappone pensieri suoi a quelli altrui. Appunti come carne viva. L’unica carne viva che come prigioniero può avere.

Vengono in mente tante sue intuizioni: il femminismo, il rapporto con la Chiesa, il ruolo degli intellettuali, la costruzione di una egemonia culturale che possa, anche in assenza di una rivoluzione, modificare progressivamente l’assetto della società. Mi sembra che Gramsci influenzi così tutto il pensiero della sinistra mondiale, dal Sud Africa di Mandela al Brasile di Lula. La stessa idea di lotta, per esempio quella agraria, influenzò talmente parte dell’Italia del dopoguerra da essere, di per sé, una forma di rivoluzione dolce. Immaginiamo solo la Toscana, la schiavitù della mezzadria, la malaria, l’analfabetismo di massa, e confrontiamola con quello che adesso è diventata. Una lotta possibile e del possibile.

Numero di matricola 7047, riportato sulla prima pagina del Quaderno n.1, cento fogli riempiti davanti e dietro con la firma del direttore del carcere. Gramsci sovrappone la sua prigionia a quella di Jaques Rivière, critico letterario francese, catturato dai tedeschi durante la Prima guerra mondiale. Annota le sue sensazioni, tracciando una linea di empatia, di somiglianza tra le rispettive prigionie. Piccoli incidenti (la sottrazione dei fiammiferi) che diventano simboli di corpi senza più volontà.

La morte inizia ad aleggiare nel suo cervello, a rivendicare una centralità nella stessa quotidianità. Si manifesta in minuscole cose, nell’assenza di dignità come nel sentirsi un’infinitesima parte di una sofferenza collettiva.  Gli affetti che mancano, i ricordi che a tratti sbucano fuori e fanno male, il pianto. Le distinzioni tra i pianti: la capacità di comprendere il lamento di altri detenuti. Sarà giovane? Sarà nervoso? Sarà disperato? Così l’esperienza della prigione diventa esperienza della privazione, in cui affiora con violenta poesia l’idea della centralità della vita. Del suo insostituibile peso etico. Così scrive e riscrive, confonde e fonde, con la fretta della pancia e non del cervello.

Il carcere diventa luogo di memoria, di cristallino amore per le masse, di elaborazione di sé e dello stesso comunismo. Ha fretta, Gramsci, non tanto perché ha paura dei fascisti, quanto perché teme di perdere la sua lucidità. Quel filo rosso che voleva avere con gli altri.

Un detenuto lo presenta a un altro detenuto – IL DIALOGO

“‘Gramsci, Antonio?’ Sì, Antonio!, risposi. ‘Non può essere’, replicò, ‘perché Antonio Gramsci deve essere un gigante e non un uomo così piccolo’”.

Il detenuto non disse più niente, ma è chiaro che l’immagine di un profeta e non di un combattente inizia a prendere la forma che lo porterà, insieme al Che, a Gandhi e a pochi altri, a incarnare i valori dell’uguaglianza per il resto della storia dell’umanità.

Contributo a cura di Luca Musella

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