Quando la giornalista e attivista australiana Stella Young è stata ospite al TEDxSidney, nel 2014, ha intitolato il suo monologo I’m not your inspiration, thank you very much. Tante grazie, ma non sono la vostra ispirazione. La Young è affetta da osteogenesi imperfetta e ha coniato il termine inspiration porn (pornografia motivazionale) per descrivere l’idea che le persone disabili possano fare certe cose nonostante la propria disabilità e che siano usate per motivare le persone non disabili.
«Per molti di noi», dice Stella Young, «le persone disabili non sono insegnanti, o medici, o manicuristi. Noi non siamo gente reale, noi esistiamo per fornire ispirazione. Ma io non sono qui per ispirarvi. Vivere con una disabilità non rende eccezionali». Cita immagini come quella della bambina senza mani che disegna tenendo una matita in bocca o slogan come l’unica disabilità nella vita è un atteggiamento negativo e identifica nello scopo di molti di questi spot una pornografia motivazionale affinché gli altri, i non disabili, possano guardarli e pensare beh, per quanto sia difficile la mia vita potrebbe essere peggio, potrei essere io quella persona. Ma cosa succede se tu sei quella persona?
Parlare di disabilità non è semplice, non lo era ieri e non lo è oggi. Oramai argomento all’ordine del giorno, estremamente discusso – si veda, ad esempio, l’accento posto sui mutamenti linguistici, come il termine inclusione rispetto al precedente integrazione o il passaggio da handicappato a diversamente abile e poi ancora a persona con disabilità – certamente per una maggiore sensibilità e consapevolezza sociale e per un’adesione sempre più intensa al cosiddetto politically correct. Ci tengo a partire, dunque, dalla definizione che viene data dalla Convenzione delle Nazioni Unite per cui, per persone con disabilità, si fa riferimento a tutti gli individui con menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che possono intralciare la loro effettiva partecipazione nella società. Un concetto scomposto e ricomposto come una matrioska, che ha origini e trascorsi storici ben più remoti.
Di disabilità si parla, infatti, dai tempi dei tempi, vista a lungo come difetto, carenza, a causa del brutto vizio dell’essere umano di considerare con accezione negativa l’essere diversi da qualcosa ritenuto nella norma. Oggetto di discriminazioni di vario tipo è stata talvolta temuta, talvolta addirittura repressa. A volte, però, compresa e supportata, come pare sia accaduto in età paleolitica, attraverso ritrovamenti e studi di resti degli ominidi (ad esempio nella località di Sima de los Huesos, in Spagna, o nella Grotta di Gargas, in Francia), tra i quali risultano anche membri disabili, sopravvissuti molto probabilmente grazie alle cure e alla solidarietà della comunità.
Nel tempo, la disabilità, la malattia o la deformità fisica sono state via via interpretate come castigo divino, escludendo tali soggetti dalla collettività (lo testimoniano anche alcuni scritti di Seneca, Platone e Aristotele, i quali esortavano a eliminare i nati mostruosi poiché è ragionevole separare esseri umani sani da quelli inutili), in virtù di un ideale di bellezza e perfezione estetica ritenuto canone. Quel canone che gli antichi greci e non solo amavano rappresentare nelle numerose sculture dai corpi impeccabili e dunque portatori anche di nobili virtù morali (il noto concetto di kalòs kai agathòs, bello e buono).
Con il diffondersi della dottrina cristiana, tuttavia, la disabilità cominciò a essere vista come facente parte dell’operato di Dio. Fondamentale era promuovere azioni di carità e solidarietà, sebbene il sentimento di compassione sfociasse più in una sorta di pietismo. Un pensiero destinato a stravolgersi nuovamente quando, in epoca medievale, si ritornò all’associazione disabilità/diversità-peccato e tali individui si ritrovarono oggetto di vere e proprie persecuzioni. Personificazioni del male, opere demoniache. Nemmeno a dirlo, le madri di bambini con menomazioni erano accusate di aver compiuto azioni deplorevoli e per questo a loro volta perseguitate.
Nel XVI secolo, invece, furono molti i dipinti che testimoniarono la presenza di individui con acondroplasia nelle corti europee, i quali erano visti come intrattenimento e oggetto di scherno, sebbene la loro vita fosse trattata in maniera più dignitosa rispetto a chi aveva una disabilità mentale. Ai cosiddetti malati di mente era riservato un trattamento ben peggiore: si diffusero presto i primi manicomi, luoghi senza speranza, dove chi non era matto lo diventava comunque.
Solo dal Settecento in poi si iniziò a considerare il disabile nel suo funzionamento, facendo riferimento a reali studi medici, scientifici e sociali. Tra questi, le rivoluzionarie teorie del filosofo francese Denis Diderot, il quale affermò che non esiste alcuno standard di normalità e che l’organizzazione naturale delle cose si basa sul concetto di eterogeneità e non di perfezione. Oppure gli studi di Charles Darwin o di Herbert Spencer sull’elaborazione del darwinismo sociale, in seguito travisati e strumentalizzati da ideologie politiche, prima fra tutte quella del regime nazista per cui il disabile era ritenuto inutile e indegno di vivere (il progetto era denominato Aktion T4) o quella secondo cui la sopravvivenza della specie si basa sulla legge del più forte (teoria eugenetica).
Saranno le svariate lotte per la conquista dei diritti civili, a fine Novecento, a dare una svolta e porre l’accento non più sulla patologia ma sulla persona e il contributo che può dare alla società. Un individuo che può avere un ruolo, che può essere produttivo. Nasce l’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF), sviluppata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, una prospettiva di tipo bio-psico-sociale della disabilità, innovativa e multidisciplinare, che va a definire la disabilità come una condizione di salute in un ambiente sfavorevole, prendendo in considerazione la correlazione tra stato di salute e contesto ambientale.
Negli ultimi anni, leggi come la n.104 del 1992, sulla piena integrazione di un individuo con disabilità nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società, o ancora la n.107 del 2015, sulla promozione dell’inclusione scolastica e il riconoscimento delle differenti modalità di comunicazione, hanno fornito un contributo essenziale al raggiungimento dei diritti, della massima autonomia possibile e della partecipazione sociale dell’individuo con disabilità. Non difetto ma abilità. Però poi non abilità ma eccezionalità.
Per quanta strada si sia fatta – senza sminuirne i traguardi, sia chiaro – una persona con disabilità continua a essere l’eccezione. «La nostra vita è difficile» continua la Young nel suo discorso. «E riguardo quella frase l’unica disabilità nella vita è un atteggiamento negativo non basta sorridere a una scalinata per trasformarla in una rampa di accesso. Sorridere a uno schermo televisivo non farà apparire i sottotitoli per chi è sordo. Non basta starsene nel mezzo di una libreria a irradiare un atteggiamento positivo per convertire tutti i libri in braille. Vorrei vivere veramente in un mondo in cui la disabilità non sia l’eccezione ma la norma. La disabilità non ti rende eccezionale ma chiederti cosa pensi di saperne, sì».