No all’introduzione del salario minimo: è ciò che è stato stabilito poche ore fa con le votazioni alla Camera dei deputati di alcune mozioni presentate da compagini politiche diverse sul tema del lavoro e su cui la mozione presentata dalle forze politiche di maggioranza ha avuto la meglio. Infatti solo quest’ultima è stata approvata dalla Camera, manifestando quindi una volontà di procedere in un certo senso legislativamente.
Si prevede un impegno del governo a raggiungere l’obiettivo della tutela dei diritti dei lavoratori non con l’introduzione del salario minimo, ma attraverso altre iniziative come l’attivazione di percorsi interlocutori tra le parti non coinvolte nella contrattazione collettiva, l’estensione dell’efficacia dei contratti collettivi nazionali comparativamente più rappresentativi […] alle categorie di lavoratori non comprese nella contrattazione nazionale, misure di contrasto ai contratti pirata o tavoli di confronto tra le parti sociali e il mondo produttivo per rilanciare lo sviluppo economico delle imprese, incrementare l’occupazione e la capacità di acquisto dei lavoratori.
Senza negare l’importanza della contrattazione collettiva, istituto fondamentale e sede di confronto tra lavoratori e datori di lavoro, una simile scelta parte – come si legge dalle premesse della mozione stessa – dalla volontà di offrire alle imprese la possibilità di adeguare alcuni istituti normativi e contrattuali, entro limiti prestabiliti, alle condizioni e alle specifiche esigenze delle diverse realtà aziendali. Eppure la contrattazione collettiva, in particolare quella nazionale, non nasce con questo fine poiché per le previsioni che possano adattarsi alle realtà locali e settoriali specifiche subentra invece la contrattazione integrativa territoriale e di settore. E quale potrebbe mai essere una realtà aziendale che per la sua natura o le sue caratteristiche possa derogare a una paga equa e dignitosa, perché no, stabilita a livello nazionale?
Ancora una volta, le imprese prima dei lavoratori. Gli imprenditori e i ricchi prima dei poveri, agitando gli spauracchi della situazione economica difficoltosa e di un alto costo del lavoro. Non si perde l’occasione, in sede di mozione, per ricordare un obiettivo che oramai somiglia più a un’ossessione: tagliare il reddito di cittadinanza, facilitando l’ingresso nel mercato del lavoro di tutti gli attuali percettori «occupabili», favorendo con l’ammontare risparmiato la detassazione delle imprese mirata anche all’assunzione di giovani lavoratori, descrivendo come ingente dunque un risparmio che molto probabilmente non sarà tale.
Proprio poche settimane fa è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale europea la direttiva 2022/2041, con il fine di garantire condizioni dignitose a tutti i lavoratori dell’Unione Europea. L’ennesima sollecitazione comunitaria che sembra rimarrà inattuata. Si tratta chiaramente di Stati membri con sistemi produttivi e un mercato del lavoro molto differenziati, per i quali quindi non può essere stabilito a livello sovranazionale uno standard retributivo minimo. Vero è che la direttiva lascia a ciascun Paese la possibilità di raggiungere il fine di far convergere verso l’alto le retribuzioni minime con le modalità che il proprio sistema predilige, sotto forma di salario minimo legale o di retribuzioni minime fissate al livello della contrattazione collettiva. Tuttavia, più che il tentativo di raggiungere un simile obiettivo salvaguardando la peculiarità del nostro ordinamento, le intenzioni espresse dal governo ci sembrano mere enunciazioni di principio, non nuove né a questa né ad altre compagini politiche e che rischiano di non portare a nulla di fatto. L’Italia rimane infatti tra gli ultimi cinque Paesi UE che non si sono dotati di una normativa sul salario minimo, con la differenza però che arranca anche nel campo della contrattazione, rimanendo per molte categorie di lavoratori assente qualsivoglia tutela.
L’opposizione, dal canto suo, ha perso l’ennesima occasione di essere tale e anche di mostrarsi su un fronte comune posto in una precisa direzione. Infatti non solo il gruppo Italia Viva-Azione, Alleanza Verdi-Sinistra, PD e MoVimento 5 Stelle hanno presentato al Parlamento mozioni differenti – rispetto al valore del salario minimo e alle premesse da cui partire – ma al momento delle votazioni si sono frammentati e una volta terminate le consultazioni sono corsi a battibeccare sui loro account social. Il risultato, se fossero rimasti uniti, sarebbe rimasto molto probabilmente lo stesso, eppure avrebbero avuto l’occasione di esprimere un’azione politica compatta, unica, per manifestare l’urgenza di un simile tema per come è avvertito dall’opinione pubblica.
Lungi da noi ritenere che la determinazione di un salario minimo ci ponga al riparo da tutte le contraddizioni del mercato del lavoro italiano. Sarebbe invece necessario riformare l’intera concezione del lavoro, disancorarsi dall’idea per cui gli imprenditori sono benefattori, e invece chi cerca lavoro debba piegarsi a qualsiasi condizione. Ripartire dalle necessarie tutele minime di sicurezza nei luoghi di lavoro, garantire una retribuzione equa e spazi di lavoro che non significhino né schiavitù né rinuncia a una vita personale.
Pur non trattandosi ancora di alcun disegno di legge, le intenzioni sono chiare, e purtroppo non ci aspettavamo nulla di diverso, né di migliore.