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Draghi: le dichiarazioni su Erdoğan e Zaki non sono gaffes

Giuliano Granato di Giuliano Granato
19 Aprile 2021
in L'opinione
Tempo di lettura: 4 minuti
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In pochi giorni, il fin troppo silenzioso Primo Ministro Mario Draghi si è lasciato scappare alcune paroline che hanno fatto da detonatore alla polemica politica, qui in Italia ma anche all’estero.

È stato nel corso di una conferenza stampa che il Premier, con una sola definizione, ha scatenato il pandemonio: «Erdoğan è un dittatore con il quale si deve cooperare». Di lì, la reazione ammirata di chi ha apprezzato lo stile di un “non-politico”, pronto finalmente a chiamare le cose col proprio nome, ma anche quella adirata da parte del leader turco che ha parlato di totale indecenza, maleducazione e di danno alle relazioni tra i nostri Paesi. E, soprattutto, ha sospeso l’acquisto per 70 milioni di euro di armamenti dalla Leonardo.

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Altra conferenza stampa, altra “parolina”. Stavolta il tema era la cittadinanza per Patrick Zaki, ragazzo egiziano di 28 anni, studente all’Università di Bologna e ormai detenuto, senza accusa formale, da più di un anno dalle autorità de Il Cairo: Draghi l’ha definita un’iniziativa parlamentare, il governo non è coinvolto. E, anche qui, è partito un profluvio di reazioni. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ha affermato che se il governo si tira indietro dopo due giorni è un brutto segnale.

Di una persona che parla poco si pensa che centellini ogni singolo termine. Possibile che Draghi si sia prodotto in due gaffes a così ravvicinata distanza di tempo? Certo, può essere. C’è chi richiama il suo non essere un politico e si spiega in questo modo le recenti esternazioni. Tuttavia, Draghi ha sempre dovuto avere a che fare con i media, ha dovuto imparare a schivare le insidie poste lungo la strada dai giornalisti, a metterci l’enfasi necessaria per dare segnali a mezzo mondo. Come quando col suo whatever it takes si narra abbia di fatto bloccato l’attacco speculativo contro alcuni Paesi dell’UE. Insomma, Draghi non è uno sprovveduto.

E allora come mai queste uscite, tra l’altro apparentemente così diverse e contraddittorie? Perché se si è avuto il coraggio di definire “dittatore” un leader eletto formalmente in maniera democratica come Erdoğan, non se ne ha altrettanto quando c’è da schierarsi al fianco di Patrick Zaki, magari denunciando il carattere autoritario o dittatoriale del governo dell’egiziano Al-Sisi? Una spiegazione c’è. O, meglio, potrebbe esserci. Perché ci muoviamo chiaramente nel campo delle ipotesi.

Quando Draghi pronuncia quella parola su Erdoğan è da poco rientrato dal suo viaggio in Libia. Ha visitato la Tripolitania, territorio oggi di fatto controllato proprio dalla Turchia del dittatore. Libia e Turchia hanno già siglato diversi accordi, formali e informali: si va dal training delle forze militari libiche allo schieramento di truppe turche, ufficiali e ufficiose, fino ad arrivare a patti relativi alle acque territoriali.

L’esternazione di Draghi potrebbe essere stata un segnale in una duplice direzione: a Erdoğan, per annunciare che i piani neo-ottomani del Presidente turco non troveranno per sempre praterie su cui poter procedere come un coltello nel burro; agli USA del neo Presidente Biden, per far sapere indirettamente che il governo italiano “gradirebbe” un ritorno della potenza imperialista nel Mare Nostrum e che è disponibile a fare la propria parte nel ruolo di contenimento – da rivale e non da nemica – delle mire espansionistiche di Ankara.

E l’evasività della risposta del Primo Ministro sulla cittadinanza a Zaki? Se Erdoğan e Al-Sisi sono per certi versi equiparabili, non lo sono i loro due Paesi e, soprattutto, le relazioni con l’Italia. Evidentemente, gli apparati statali italiani non considerano l’Egitto un possibile rivale nella regione del Mediterraneo. Anzi: gli affari di ENI procedono a gonfie vele, la cessione delle due fregate FREMM che ha creato malumori nella Marina italiana hanno permesso una nuova luna di miele con i militari de Il Cairo. E, in questa cornice, Zaki e Giulio Regeni sono degli incidenti di percorso, un “fastidio” per una classe dirigente che non ragiona in termini di visione di un domani democratico e all’insegna dell’autodeterminazione dei popoli, ma di quella di affari e potenza.

Draghi non è uno sprovveduto. È oggi a capo di una struttura politico-economico-burocratica che persegue gli interessi delle classi dominanti italiane. A volte, può servire giocare a fare i democratici; altre volte a chiudere tutti e due gli occhi. In nessun caso, però, ci si muove in un’ottica di trasformazione del quadro, di cooperazione tra i popoli delle diverse sponde del Mar Mediterraneo.

Non bastano gli atti di condanna, le sottolineature della doppia morale e dell’ipocrisia di Stato. Serve uno sforzo eccezionale, capace di produrre una nuova e differente visione delle relazioni internazionali, a partire dai rapporti con la sponda meridionale e orientale di quello che qualcuno si ostina a chiamare Mare Nostrum.

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