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Disabilità e arte: la perfezione del corpo imperfetto in Marc Quinn

Alessandra Trifari di Alessandra Trifari
22 Febbraio 2023
in Lapis
Tempo di lettura: 6 minuti
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Quando si parla di arte, in particolare di arte classica, le parole che più di tutte risaltano alla mente sono perfezione, armonia, rigore, equilibrio, bellezza. In fin dei conti, l’arte, in quanto strumento di conoscenza della realtà e del mondo circostante, ha nel tempo ricercato costantemente un modello di bellezza ideale, un canone estetico che, inevitabilmente, è andato via via modificandosi a seconda delle circostanze storiche e culturali. Ma cos’è davvero la bellezza?

È qui che si colloca la figura di Marc Quinn, artista e scultore britannico classe 1964, uno dei membri più interessanti degli Young British Artists (YBAs), detti anche Brit Artists o Britart. Trattasi di un gruppo informale di artisti che iniziò a esporre collettivamente in locali e magazzini di Londra intorno agli anni Ottanta del Novecento. Tra i maggiori esponenti troviamo anche Damien Hirst, Ian Davenport e Tracey Emin. Quinn studiò Storia dell’Arte all’Università di Cambridge e alla Slade School of Fine Art di Londra, per poi iniziare a esporre le sue prime opere negli anni Novanta e, immediatamente, distinguersi.

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Forse per le idee stravaganti, forse per la peculiare scelta dei materiali – alternava materiali tradizionali come marmo o bronzo ad altri più trasgressivi come pane, sangue, ghiaccio – ma le sue sculture sono a oggi considerate tra le più stimolanti e, per certi versi, scioccanti dell’arte contemporanea. Basti pensare all’opera che Quinn presentò, nel 1991, presso una galleria londinese e che lo rese celebre a livello internazionale: Self, un autoritratto a tutto tondo della sua testa. Piccolo particolare, era realizzato con il suo stesso sangue congelato, circa cinque litri, estratto dal suo corpo in un periodo lungo un quinquennio. Un momento congelato in supporto vitale, per citare le parole dello stesso Quinn, l’opera viene aggiornata ogni lustro circa, testimonianza della trasformazione e del deterioramento fisico dell’artista.

O come non menzionare il ritratto al biologo John Edward Sulston, Premio Nobel nel 2002 per il suo contributo nella mappatura del DNA, realizzato con batteri che contengono segmenti di DNA dello stesso Sulston, conservati in una gelatina. È infatti il corpo umano nelle sue contraddizioni e nella sua mutabilità il punto focale delle opere di Quinn, opere che ci ricordano la transitorietà della realtà e l’inesorabile declino della materia vivente, senza distinzioni. Mettono in evidenza la relazione che viviamo quotidianamente con la nostra persona fisica, la dicotomia tra corpo e identità, tra superficie e profondità ma, soprattutto, tra naturale e culturale.

Lo possiamo vedere in alcune opere che rappresentano forse un’importante svolta per l’arte di Quinn, come per l’arte contemporanea in generale, che pongono al centro del dibattito un concetto piuttosto singolare: la disabilità. Nel 2000, per la sua personale presso la Fondazione Prada a Milano, Quinn espose Group Portrait, una serie di sculture in marmo a grandezza naturale raffiguranti persone con menomazioni fisiche o arti amputati, in una rilettura dell’arte greco-romana e della volontà di mostrare un intero ideale. L’effetto shock fu immediato.

Sulla scia dei capolavori di Policleto, Fidia o Prassitele, dove i corpi perfetti e aitanti si mostravano come esemplari, le statue di Quinn, rigorosamente nude, ponevano una riflessione sull’ideale di bellezza e perfezione, spesso attribuito anche a opere che, nel tempo, sono state ritrovate acefale o comunque mutile (si pensi alla Nike di Samotracia, alla Venere di Milo o ancora al Torso del Belvedere). Non è un caso che la scelta del materiale sia ricaduta sul marmo bianco di Carrara, tra i più nobili: Quinn voleva conferire dignità e valore estetico a individui il cui corpo è da sempre stato considerato, per la società, imperfetto, sbagliato, a tratti mostruoso.

Tra le varie sculture vi è senza dubbio la più celebre, Alison Lapper Pregnant. Ha come soggetto un’artista e fotografa nata con una deformazione congenita chiamata focomelia, cioè priva di braccia e con gambe troncate, noto membro dell’AMFPA (Association of Mouth and Foot Painting Artists of the World). L’opera, che ritrae la donna nuda e nel corso della sua gravidanza, fu in seguito riprodotta in dimensioni monumentali (circa quindici tonnellate di marmo) ed esposta sul quarto plinto di Trafalgar Square, a Londra, oltre che ricommissionata in occasione delle Paralimpiadi di Londra del 2012. Anche se in molti lodarono la scultura per il suo valore sociale progressista, non furono poche le polemiche, che accusarono Quinn di spettacolarizzazione della disabilità.

In realtà, le controversie sulla disabilità sono state costantemente al centro del dibattito artistico. Se è vero che l’arte è sempre stata ritenuta, specie in antichità, imitazione della realtà, da sempre l’individuo con disabilità è stato visto come divergente rispetto ai presupposti della società. Disabilità come mancanza, carenza, oggetto di discriminazioni, a volte temuta, emarginata, a volte soppressa. Interpretata come castigo divino, in virtù di un ideale estetico ritenuto norma.

Proprio nell’antica Grecia si ritenevano naturali bellezza, bontà e salute e innaturali bruttezza, cattiveria o malattia, a meno che le mutilazioni non fossero l’esito di battaglie o azioni socialmente valorizzate. Il cosiddetto bello e buono (kalòs kai agathòs), che associava alla perfezione del corpo umano anche le sue più alte virtù morali. Un concetto, quello del mostro (freak) inteso come deforme, bizzarro, anomalo, che ha subito un’enorme trasformazione nel corso della storia. Nel Cinquecento, ad esempio, la presenza di persone affette da acondroplasia nelle corti europee era vista come intrattenimento per i signori e il loro aspetto era più che altro oggetto di scherno. Lo testimoniano moltissime opere dell’epoca, tra cui il celebre Convito in Casa di Levi del Veronese (1573), che mostra la figura di un nano nel ruolo di giullare.

Se dunque non riguardava l’orrore, allora riguardava il grottesco, in una sorta di morboso interesse mescolato a paura e ribrezzo per quei soggetti la cui disabilità non era altro che una o più bizzarrie estetiche. Bisognerà attendere la fine del XX secolo, con le varie lotte per la conquista dei diritti civili, per iniziare a guardare la disabilità come parte integrante della società e non più una mera patologia e basta.

L’arte contemporanea, avulsa da preconcetti, censure o edulcorazioni, si dimostra portavoce di una bellezza ed estetica della divergenza, della diversità, valorizzando il corpo disabile nella sua unicità e dignità. Non una provocazione fine a se stessa, bensì un’attenta riflessione sul concetto di umanità. Oltre Marc Quinn, vogliamo ricordare anche Alison Lapper, le fotografie emancipatorie di Diane Arbus e Mari Katayamab, mutilata da una rara malattia degenerativa, le performance artistiche di Chiara Bersani, con osteogenesi imperfetta, Lisa Bufano, senza più le gambe e le dita delle mani, o Mary Duffy, nata senza braccia. Quest’ultima, ad esempio, ha incantato il pubblico negli anni Novanta, impersonando la Venere di Milo e rivendicando la sua bellezza come donna con disabilità.

Dopo il Group Portait, Quinn tornò a far parlare di sé nel 2006, con diversi studi sulla modella Kate Moss, come Sphinx o Siren (in oro diciotto carati), che mostrano la donna in alcune contorte posizioni yoga. Ma attirò nuove controversie quando espose, intorno al 2010, una serie di sculture marmoree ispirate a personaggi più o meno noti, come la pornoattrice Chelsea Charms o alcune persone transessuali. La scultura Buck & Allanah rappresenta i due nudi, mano nella mano, rimandando alle opere su Adamo ed Eva. Thomas Beatie, anche conosciuto come The pregnant man, è raffigurato in posa durante la gravidanza, mentre abbraccia il suo pancione.

«Sono affascinato dai limiti delle cose» ha detto Quinn in un’intervista. La sua arte ha sempre messo al centro la natura umana e le sue trasformazioni in rapporto ai progressi scientifici e come la cultura influenzi la nostra percezione. L’energia vitale, la sostanza, ma anche la fragilità. L’andare oltre, riflettere su una consapevolezza, su una realtà in continua evoluzione che include corpi unici, differenti e al contempo stupendi, degni.

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Alessandra Trifari

Classe 1991. Dottoressa in storia dell'arte e disegnatrice. Scrive da sempre e la sua mente viaggia tra arte, cinema, musica e parità di genere. Dei due sentieri, sceglierà sempre il meno battuto.

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