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Diritti umani: il resoconto di un 2020 disastroso

Chiara Barbati di Chiara Barbati
22 Gennaio 2021
in Attualità
Tempo di lettura: 5 minuti
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La recente uscita del report sui diritti umani nel mondo realizzato da Human Rights Watch è piuttosto preoccupante. Nel corso dell’ultimo anno, l’attenzione mondiale si è – giustamente – concentrata sulla minaccia pandemica che ha reso più difficile e pericolosa la vita dell’intera popolazione del pianeta. Attenti alla gestione della pandemia, al corretto flusso di informazioni, alle novità scientifiche, però, sono stati numerosi gli argomenti prioritari passati in secondo piano. Basti pensare a quanto velocemente si sia abbandonata l’urgenza della questione climatica, dimenticando che ci resta pochissimo tempo prima di compromettere per sempre la vita sulla Terra. Addirittura, la COVID ha spesso fornito un’ottima giustificazione, nel corso degli ultimi mesi, per quei leader che hanno deciso di approfittare della situazione di disordine per accrescere il proprio potere, sorvolare su questioni importanti e persino per sfuggire alle condanne internazionali in caso di gravi violazioni. È questo il caso dei diritti umani, il cui rispetto, alla fine di un anno disastroso, sembra aver compiuto numerosi passi indietro.

Il report annuale di Human Rights Watch lascia pochi dubbi, dedicando alla Cina il primato in quanto a violazioni dei diritti umani e a violazione del diritto al dissenso. Sono ormai diversi anni che la persecuzione delle minoranze musulmane ha conquistato l’attenzione mediatica mondiale ma, nonostante la visibilità, non sembra che la Cina si sia in alcun modo preoccupata di adeguarsi alle norme internazionali. Anzi, secondo il report, la repressione delle minoranze etniche nella zona dello Xinjiang, in Mongolia e in Tibet è in aumento: il Governo ha investito nel monitoraggio digitale, costruendo il più intrusivo sistema che il mondo abbia mai visto. Oltre alla repressione e alla reclusione, dunque, la Cina ha deciso di impegnarsi nel tenere sotto controllo le scomode minoranze qualora avessero voglia di ribellarsi o esprimere dissenso.

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L’idea del controllo sociale e dell’impiego di tecnologie per attuarlo è più radicata di quanto si pensi. Il Paese asiatico ha sempre avuto particolare interesse nell’identificare qualunque forma di dissenso e, dunque, era inevitabile che l’avanzamento tecnologico fornisse un assist a un governo che non si fa scrupoli a investire risorse nel controllo e nella repressione. Oltre alle invivibili condizioni delle minoranze etniche e religiose, però, la Cina ha scalato la classifica anche grazie alla repressione politica di Hong Kong, che ormai assiste inerme all’eliminazione di una qualunque forma di democrazia. In aggiunta a queste gravissime violazioni dei diritti umani, l’atteggiamento iniziale nei confronti dell’epidemia da COVID ha sancito il punto di non ritorno, per il Paese, verso le vette di una miserevole classifica.

Posto d’onore anche per Bolsonaro, che ha fatto della discriminazione la sua politica principale. Nel Paese in cui si è negata oltre ogni ragionevolezza l’avanzata del virus, nel luogo che ha visto oltre 200mila morti da COVID, non è stato solo l’atteggiamento sprezzante nei confronti delle direttive riguardo la pandemia a fare del Brasile uno Stato invivibile. Discriminazione delle minoranze etniche, delle donne e dei disabili, riduzione della libertà di stampa e repressione dei diritti dei nativi sono solo le più discusse di tutte le violazioni di cui si è macchiato il Presidente brasiliano. Nella disanima del suo operato, sebbene non interessi direttamente i diritti umani, HRW cita anche la deforestazione promossa dallo stesso leader e, in relazione a essa, le minacce e le intimidazioni nei confronti di nativi, residenti locali e autorità ambientali che hanno tentato di difendere le foreste.

Sebbene gli eventi degli ultimi giorni, l’attacco a Capitol Hill e le numerose conseguenze che ne sono derivate non rientrino nelle tempistiche in cui il report è stato elaborato, gli Stati Uniti hanno più di una ragione per essere accusati di violazione dei diritti umani. Trump non ha mai esitato a negare l’asilo, ha separato i bambini immigrati dai loro genitori, ha fomentato l’odio nei confronti delle minoranze, ha promosso la vendita di armi a Paesi accusati di crimini di guerra e ha, indirettamente e non, istigato alle violenze, al suprematismo, alle discriminazioni. Con le parole utilizzate nel corso degli ultimi mesi, non ha fatto altro che provare a indebolire il processo democratico. Insomma, da patria della multiculturalità, l’America sembra aver perso questo primato in favore di altri di cui andare molto meno orgogliosi.

La libertà d’espressione, però, è probabilmente il diritto più frequentemente violato. Mentre siamo impegnati a chiederci che potere abbiano i social network di rimuovere i nostri post e di bloccare i nostri profili, sono numerosi i luoghi del mondo in cui la mancanza di libertà di parola assume tutto un altro significato e diventa repressione del consenso. In Polonia, i media sono ormai sotto il totale controllo dello Stato e diffondono, più che informazione, vera a propria propaganda per conto del partito Diritto e Giustizia. In Bielorussia, invece, le proteste per ottenere nuove – e libere – elezioni presidenziali sono state sedate con la forza, con manifestanti torturati e giornalisti arrestati. In Egitto, esponenti politici dissidenti e attivisti sono detenuti per aver espresso le loro idee: in soli due mesi sono stati arrestati quasi mille manifestanti anti-governativi.

La pandemia ha certamente aggravato situazioni già difficili prima dell’inizio del 2020 e, contemporaneamente, ha permesso che l’attenzione mondiale abbandonasse questi problemi, arrecando ancora più danni. In tal senso, anche l’Italia ha molti difetti e commette innumerevoli violazioni dei diritti umani – e solo alcuni di essi dipendono dalla COVID. Da sempre, le condizioni in cui vivono i detenuti e in cui si trovano gli immigrati nei centri di accoglienza sono una vergogna per il nostro Paese. Sotto accusa finiscono, poi, l’aumento di casi di femminicidio, la violenza domestica, drasticamente cresciuta durante la pandemia, e il digital dived, che nel corso dell’ultimo anno non ha garantito il diritto all’istruzione al 12% degli studenti in età scolare.

Secondo Amnesty International, il 2020 non è stato solo teatro di gravissime violazioni, ma anche un periodo di straordinario attivismo, come non se ne vedeva da molto tempo. È chiaro, però, che tutti i movimenti che lo hanno animato non siano bastati a risolvere i problemi. Da quando sono nati, il dilemma dei diritti umani è sempre stato lo stesso. Il fatto che siano più o meno globalmente riconosciuti non implica che essi siano realmente rispettati, o che siano investite le risorse necessarie perché nessuno ne sia privato o che, magari, la comunità internazionale agisca in favore della loro tutela e non dei propri interessi economici. È facile, guardando ai fallimenti degli altri Paesi, pensare che le libertà in casa nostra siano molto più tutelate che in altri luoghi. Ma, alla luce dei dati raccolti, sebbene la situazione sia ben più grave altrove, è importante non cedere alla tentazione di crederci migliori, soprattutto se a spingerci a farlo non ci sono i nostri successi, ma i demeriti altrui.

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