Negli ultimi giorni, il dibattito sull’utilizzo del Recovery Fund si sta facendo piuttosto acceso: ogni Stato dovrà infatti presentare, entro la fine di aprile 2021, una proposta di Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, rispettando le linee guida dettate dalla Commissione Europea. Tra queste, la necessità di utilizzare almeno il 20% degli investimenti per la transizione digitale, in particolare dell’amministrazione pubblica. A tal proposito, tra i settori che necessitano di modernizzazione c’è sicuramente quello giudiziario, che presenta una lunghezza cronica dei procedimenti e una situazione perennemente emergenziale degli istituti di pena.
In base alle prime indiscrezioni, circa 600 milioni saranno destinati alla giustizia, dunque si tratta di un’opportunità da non farsi sfuggire, considerato che l’Italia non ha mai avuto fondi così cospicui da utilizzare in quest’ambito se non per rispondere alle spese ordinarie. Lo scorso anno, al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sono stati attribuiti più di 3 miliardi, mentre solo 283 milioni sono spettati al Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, che ha in carico le misure alternative.
Quella vigente nel nostro Paese è sicuramente un’impostazione carcerocentrica, che utilizza la pena detentiva anche al di là dei limiti imposti dalla Costituzione e dei principi vigenti nel nostro ordinamento, che la individuano invece come extrema ratio cui ricorrere solo laddove la finalità rieducativa propria della pena non possa essere raggiunta in altro modo. Quella che gli investimenti del Recovery Fund ci offrono è l’occasione per rivedere l’intera impostazione cui si ispira il sistema penitenziario, spogliando così la pena da qualsiasi elemento afflittivo e riportando l’uomo e la finalità risocializzante al centro dell’intero percorso trattamentale.
Come sottolineato dall’Associazione Antigone, che ha presentato anche un documento programmatico sull’utilizzo che dovrebbe farsi degli investimenti europei, il primo terreno su cui bisogna operare è proprio quello della giustizia di comunità attraverso l’implementazione di istituti come case famiglia, luoghi idonei a ospitare le madri detenute – mettendo così fine all’incubo della reclusione che riguarda ancora troppi bambini –, comunità a sostegno di tossicodipendenti e di chi necessiti di un percorso terapeutico e di supporto impossibile da compiere in carcere. Riportare al centro le misure alternative non è più utile soltanto in termini di recidiva – solo lo 0.5% di coloro che hanno scontato la loro pena in regime alternativo alla detenzione hanno commesso nuovi reati, a fronte di una percentuale altissima per chi esce dal carcere –, ma soprattutto meno costoso in termini economici: basti pensare che i detenuti costano ben 130 euro al giorno – ciò che comporta maggiori spese sono le attività di custodia –, mentre le misure alternative appena un decimo, permettendo inoltre di svuotare le carceri sovraffollate, in particolare per chi deve scontare una pena breve.
Il Governo, dunque, dovrà resistere alla tentazione di costruire nuovi istituti, rincorrendo una feroce edilizia penitenziaria che non soddisfa in alcun modo la domanda di sicurezza che proviene dalla popolazione e investire, invece, nella stipulazione di accordi con le centrali di cooperazione sociale, di artigianato e industria, per creare vere occasioni di risocializzazione. Nonostante i primi propositi espressi al riguardo dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede parlino proprio della costruzione di nuovi penitenziari, infatti, bisogna essere in grado di andare oltre e convincersi che il carcere non produce sicurezza, soprattutto non aiuta le persone che vi entrano a intraprendere un reale percorso di cambiamento e reinserimento sociale, dando loro quella possibilità che nella maggior parte dei casi non hanno avuto.
Oltretutto, risulta completamente illogico costruire altri istituti se quelli esistenti sono fatiscenti e irrispettosi della dignità umana. Risulta quindi necessaria una modernizzazione delle carceri con investimenti che riguardino tutta la vita interna, a cominciare dalle condizioni igienico-sanitarie adeguate – basti pensare che nella metà dei penitenziari visitati da Antigone lo scorso anno non c’è acqua calda –, fino ad arrivare allo sport, alle attività scolastiche, ludiche e risocializzanti. Inoltre, l’istituzione carceraria appare ancora completamente isolata dal mondo esterno, con una totale mancanza della rete internet e di qualsiasi collegamento con il fuori che non sia epistolare. Durante la pandemia, abbiamo potuto osservare gli effetti positivi delle semplici videochiamate, che hanno permesso ai detenuti di rimanere in contatto con i propri affetti e, addirittura, in molti casi di creare il contatto laddove non era stato rispettato il principio di territorialità della pena e le famiglie erano separate ormai da mesi. Si tratta di un basilare strumento che riveste però una fondamentale importanza e che, insieme all’implementazione di altri collegamenti, dovrebbe restare a disposizione delle persone recluse anche una volta conclusasi l’emergenza sanitaria in corso.
Ma è proprio l’area trattamentale che necessita di maggiore modernizzazione e, soprattutto, di un’implementazione del personale: in media, un educatore ha in carico novantadue detenuti con un trattamento economico nettamente inferiore rispetto a quello degli agenti. Inoltre, solo in un carcere su dieci c’è un mediatore linguistico e culturale. I funzionari amministrativi – cui spesso vengono addebitate le lungaggini burocratiche – sono il 16.8% in meno di quelli previsti, mentre i direttori hanno spesso in carico più istituti di pena contemporaneamente e con non poche difficoltà. Gli assistenti sociali, gli psicologi e gli psichiatri sono del tutto insufficienti, così spesso si finisce per sostituire al percorso trattamentale una terapia farmacologica e non individualizzata.
Mentre lo staff penitenziario necessiterebbe di una continua formazione che consolidi le competenze essenziali per seguire i detenuti in un trattamento personalizzato, le figure tipiche dell’area di contenimento vengono rafforzate e, anzi, vengono sempre più spesso invitate a ricoprire ruoli di direzione e amministrazione, rendendo così palese l’idea di una pena che non ha nulla a che vedere con la rieducazione. Basti pensare che è attualmente al vaglio del Parlamento una proposta di legge che riguarda la trasformazione degli educatori in operatori penitenziari. E se da un lato gratifica maggiormente da un punto di vista economico queste figure, dall’altro li spoglia della loro caratterizzazione principale, ossia quella di essere lontani da qualsiasi compito di custodia e contenzione.
Sono quindi moltissimi i campi in cui poter operare e con interventi che non siano solo strutturali, bensì dediti alla concezione della pena stessa: passare da politiche penali a politiche sociali, che prevengano i crimini e agiscano laddove la criminalità trova il proprio terreno fertile, investire nei diritti umani, ripudiare l’idea di altre carceri e costruire, invece, un nuovo sistema penitenziario.