Quando si parla di genocidio è facile che vengano in mente orribili immagini di stermini di massa, vite maltrattate e poi rubate in nome di un bene superiore dai valori discutibili. E ci siamo trovati spesso, negli ultimi tempi, a parlare dei genocidi contemporanei, perpetrati con quella stessa intolleranza del diverso che ha caratterizzato l’uomo dall’alba dei tempi. Eppure, un genocidio non è attuato solo attraverso l’omicidio di esponenti di un determinato gruppo etnico o religioso. Esso avviene anche tramite l’annullamento dei valori e della cultura di una minoranza, con l’obiettivo di inglobarla in modo che, di fatto, sparisca. Ed è esattamente ciò che sta avvenendo ai danni degli uiguri.
Si tratta di una delle minoranze musulmane della Cina, che occupa in particolar modo la regione dello Xinjiang. La popolazione ha spesso lottato per l’indipendenza già a partire dal 1934, ma ogni tentativo si è concluso con l’annessione alla Repubblica Popolare Cinese. A partire dal 2001, poi, quando la lotta al terrorismo islamico ha iniziato ad affermarsi a livello globale, il governo cinese ha intensificato gli atteggiamenti repressivi nei confronti della minoranza, utilizzando la sua religione come giustificazione a discriminazione e violenza. I campi adibiti alla detenzione degli uiguri sono notevolmente aumentati a partire dal 2016, ma risalgono al 2014 le dichiarazioni – contenute nei documenti trapelati – del Presidente Xi Jinping che esortava a non avere alcuna pietà nei loro confronti.
I problemi più recenti hanno avuto certamente origine con il notevole aumento della popolazione uigura nel corso degli ultimi decenni, che è passata dai 5.55 milioni del 1978 agli 11.68 milioni del 2018. L’eccessivo aumento demografico di una minoranza religiosa deve aver quindi preoccupato il governo di un Paese particolarmente avvezzo al controllo delle nascite anche dei suoi cittadini più legittimi. E infatti risalgono allo scorso novembre le prime avvisaglie: un’inchiesta del New York Times aveva rivelato la presenza di oltre un milione di uiguri nei campi di detenzione, definiti invece dal governo cinese come centri di formazione utilizzati per contrastare l’estremismo islamico e, soprattutto, con fini rieducativi. Ed è proprio questo il concetto chiave che spesso si tende a sottovalutare quando si parla di genocidio.
Esso non può fermarsi all’eliminazione delle persone, perché esistono valori in grado di sopravvivere alla morte del singolo, impostazioni culturali e fedi religiose che non muoiono insieme ai soggetti e sopravvivono anche all’interno delle più dissestate comunità. E, dunque, uccidere non basta: bisogna rieducare, cancellare l’identità, proprio come accade in quei campi pensati per liberare le minoranze dalla loro cultura e assimilarli all’interno di quella dominante. Un’operazione di rieducazione politica e religiosa che persegue il chiaro scopo di annullare le differenze per ottenere quella società piatta e controllabile formata da individui tanto conformati alla massa da rischiare di perdere anche la propria più intima individualità.
A volte, dimentichiamo quanto i genocidi della nostra più recente storia abbiano puntato anche a questo, all’annullamento valoriale accanto all’annientamento storico. Si tratta di genocidio culturale, dell’imposizione di una lingua o dei costumi della maggioranza dominante, un tipo di crimine contro l’umanità che spesso non viene ritenuto tale, forse perché perpetrato da moltissimi Stati coloniali occidentali anche in tempi relativamente recenti. Anche dall’Italia in epoca fascista, a dir la verità, sebbene spesso sia semplice dimenticarlo.
Per ora, quello perpetrato nella regione dello Xinjiang è stato riconosciuto come – altrettanto grave – genocidio demografico, a causa dell’estremo controllo sulle nascite da parte del governo cinese. La recente inchiesta dell’Associated Press denuncia non solo l’elevata percentuale di arresti legati al numero di figli, ma anche l’estremo controllo sulle gravidanze degli uiguri e di altre minoranze. E, come sempre, quando si parla di limitare le libertà, quelle che ne subiscono maggiormente le conseguenze sono le donne: uso forzato di contraccettivi, ma soprattutto imposizione di aborti e sterilizzazione forzata sono pratiche il cui ricorso sta esponenzialmente crescendo in Xinjiang.
Mentre la media nazionale scende e le nascite sono di nuovo incoraggiate nel resto della popolazione, infatti, gli uomini musulmani con più di due figli finiscono nei campi di detenzione e alle donne è riservato l’ancora più invasivo trattamento di privazione della fertilità. Due tipi di violenza evidentemente tarati sul genere, ma che in fondo si somigliano parecchio, perché hanno troppo a che fare con la libertà e con il corpo: chi non può decidere dove tenerlo e chi, invece, non può decidere che uso farne. Ma che si tratti di essere fisicamente incarcerati o di essere ingabbiati all’interno di se stessi, quello che la Cina sta mettendo in pratica ai danni delle minoranze indesiderate è la più crudele delle punizioni che l’uomo è in grado di perpetrare ai danni di un’intera popolazione. E la comunità internazionale dovrebbe assolutamente intervenire.