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David Foster Wallace: uno scherzo finito dieci anni fa

Benedetta De Rosa di Benedetta De Rosa
9 Novembre 2021
in Lapis
Tempo di lettura: 6 minuti
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Andrò a New York a lavorare da American Apparel.

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o se non altro vado al parco e leggo David Foster Wallace.

Così, con una canzone del 2011 scritta da Niccolò Contessa, mente e voce del progetto musicale iCani, la sottoscritta e molti altri poco più che ventenni italiani, cresciuti senza troppa curiosità per la letteratura contemporanea americana – anche perché totalmente ignorata dall’offerta scolastica dell’ultimo anno di scuole superiori –, venivano a conoscenza di David Foster Wallace. Inserito in un testo che scimmiotta le velleità e i modi di fare della giovane popolazione hipster nostrana, molto meno acculturata di quella statunitense da cui il fenomeno ha preso piede a partire dal secondo dopoguerra, David Foster Wallace viene citato come autore da leggere o quantomeno con cui riempirsi la bocca per scambiare discorsi che ci facciano sembrare interessati quasi quanto quel faccio cose, vedo gente che Nanni Moretti prendeva in giro nel suo Ecce Bombo (ed era solo il 1978, la nostra generazione è figlia di quegli pseudo-intellettuali impegnati e annoiati di quarant’anni fa, ma con ancora meno ideali in cui credere, ancora più soffocati dalla cultura di massa, ancora più anestetizzati dai social network e da ogni tipo di diversivo offerto da internet). Successivamente, per quel che mi riguarda, il tempo e gli amici più grandi hanno cercato di colmare questa lacuna: chi era davvero DFW (lui stesso amava gli acronimi), perché oltre a essere citato da iCani c’è addirittura un episodio dei Simpson che parafrasa il titolo di un suo romanzo e nel quale una sua versione cartonizzata perfettamente somigliante fa da comparsa, ma soprattutto perché questo autore è stato così osannato, citato, usato in conversazioni, saggi, film, serie televisive e, ovviamente, articoli.

Nato nel 1962 a Ithaca, nello Stato di New York, come David Wallace (assunse poi il cognome della madre per firmarsi), vissuto per buona parte della sua vita a Champaign in Illinois e morto (suicida) nel 2008, precisamente il 12 settembre, nella sua villa di Claremont in California, Foster Wallace in 46 anni di vita seppe regalare alla letteratura contemporanea americana e quindi mondiale una nuova impronta di stile, così tanto che a dieci anni dalla sua scomparsa è ancora al centro di controversie letterarie e non.

Parlare di lui senza risultare retorici potrebbe essere estremamente difficile ma ricordare quello che è stato, soprattutto in occasione del decimo anniversario della sua morte è doveroso: già dal primo romanzo pubblicato a 24 anni, nel 1987, The broom of the system (La scopa del sistema), e dal successivo lavoro, la raccolta di racconti La ragazza dai capelli strani, David impressionò per il suo stile narrativo, spudorato, pieno di digressioni, ossessivo e meticoloso per quanto riguarda la forma, la gestione della punteggiatura, gli usi irregolari. Uno stile che per questo e per le numerosissime espressioni tipicamente anglofone ha dato filo da torcere ai traduttori verso i quali lo scrittore nutriva uno scetticismo di base dovuto dal fatto che per lui fosse impossibile verificare il risultato finale. Tra questi, per le versioni in italiano, ricordiamo uno dei primi, l’autore Francesco Piccolo, che ha tradotto Girl with curious hair (La ragazza dai capelli strani) e A supposedly fun thing I’ll never do again (Una cosa divertente che non farò mai più), analisi semiseria pubblicata sotto forma di saggio dalla rivista Harper’s Magazine nel 1996, nella quale è redatto un reportage su una settimana di crociera ai Caraibi, commissionato dalla rivista stessa, in cui l’autore in chiave umoristica riflette sulla cultura di massa americana procedendo sul filo dell’auto-parodia: si parte da un’analisi sociologica dei viaggiatori, dell’equipaggio, di tutta l’industria delle crociere di lusso, per concludere poi le riflessioni su se stessi e sui comportamenti dello scrittore in crociera, come se si analizzasse da fuori.

Ma il 1996 è soprattutto l’anno dell’opera che più caratterizza l’unicità di David Foster Wallace: il romanzo Infinite Jest. Un romanzo distopico di 1280 pagine più un altro centinaio di note, ambientato in una versione satirica e semiseria del Nord America in un futuro imprecisato poco lontano dall’epoca in cui Wallace scrisse (secondo la critica letteraria il periodo tra il 2008 e 2009) in cui vengono toccati tutti i temi possibili: le dipendenze da droghe, alcol e psicofarmaci (pare che l’ispirazione fosse giunta dopo il ricovero presso la clinica psichiatrica Mc Lean’s di Boston, per cui DFW dovette interrompere il dottorato in filosofia ad Harvard), la matematica, che lo scrittore amava profondamente, le relazioni familiari, il cinema e il tennis, usato come paragone della competizione sociale.

Il titolo, una citazione dall’Amleto – Alas, poor Yorick! I knew him, Horatio, a fellow of infinite jest (Ahimè, povero Yorick! L’ho conosciuto, Orazio: un compagno di scherzi infiniti) – è rimasto così anche nella versione italiana portata a compimento grazie alla testardaggine dello scrittore Sandro Veronesi. Questi ha più volte dichiarato che dopo numerose porte chiuse dalle più grandi case editrici dello Stivale, per timore che l’immane lavoro di traduzione non riuscisse nemmeno a coprire le spese di pubblicazione, grazie alla disponibilità di Domenico Procacci, il produttore cinematografico, è stata addirittura fondata una nuova realtà letteraria, la Fandango Libri, solo per poter leggere questo romanzo in italiano e quindi poterne apprezzare gli artifici linguistici dopo un notevole lavoro da parte di professionisti. Così, alcuni anni dopo la pubblicazione americana, nel 2000 venne pubblicata la prima edizione italiana, tradotta da Edoardo Nesi e Annalisa Villoresi, seguita da una riedizione del 2006 per Einaudi, che con Minimum Fax attualmente in Italia ristampa e distribuisce le raccolte di racconti e romanzi di Wallace. Così lo scrittore venne consacrato alla fama con il ruolo di profeta dei nostri tempi che gli stette stretto, diventando paradossalmente di massa e parte di quei meccanismi da lui stesso criticati, riconoscendo tutto ciò con grandi turbamenti a riguardo.

Dopo Infinite Jest, pubblicò Brief Interviews with Hideous Men (Brevi interviste con uomini schifosi), una raccolta di 23 racconti, Oblivion (Oblio), Consider the Lobster. And other essays (Considera l’aragosta. E altri saggi) – il cui titolo viene dal racconto in cui si descrive con il solito stile dell’autore la sua partecipazione come inviato alla fiera dell’astice del Maine nell’agosto 2003 –, altri racconti non antologizzati pubblicati postumi, e il suo ultimo romanzo, lasciato incompleto, The pale king (Il re pallido).

Wallace diventò professore di letteratura inglese e di scrittura creativa al Pomona College in California, intervallando periodi più sereni a periodi di abusi di droghe e alcol, manifestazione della sua depressione latente curata con psicofarmaci che non sempre riuscivano ad alleviare la sua condizione. Si sposò nel 2004 con la pittrice Karen Green (che ha pubblicato in occasione dei dieci anni dalla scomparsa del marito un romanzo, Il ramo spezzato, in cui racconta la sua vita accanto allo scrittore, edito in Italia dalla Baldini e Castoldi), ma la sua depressione non gli lasciò scampo. C’è chi dice che la causa scatenante fosse stato il cambiamento della terapia farmacologica che lasciava lo scrittore preda dei suoi attacchi piuttosto che tamponare il male, ma non importa, DFW si spense così, lasciando i suoi lettori spaesati, abbandonati nel combattere quella lotta ideale fatta di sarcasmo e ironia che stavano portando avanti insieme.

Il mondo in questi dieci anni è cambiato, ma le sue parole restano come un faro che ognuno potrà interpretare come vorrà, al di là delle santificazioni, accompagnando il lettore, facendolo sentire meno solo, dandogli nuovi punti di vista. E questo DFW, annoverato ormai (suo malgrado) come importanza tra gli autori classici, potrà farlo per sempre. Death is not the end, La morte non è la fine, così intitolò un racconto di Brevi interviste ad uomini schifosi, rifacendosi a una canzone di Nick Cave, e in questo caso non lo è davvero.

Prec.

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