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“Chiamami col tuo nome” e la vita tra ragione e sentimento

Vincenzo Villarosa di Vincenzo Villarosa
9 Novembre 2021
in Cinema
Tempo di lettura: 3 minuti
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Raccontare per immagini il desiderio e la sua realizzazione carnale senza scadere nella volgarità compiaciuta e morbosa è cosa rara. Con il film Chiamami col tuo nome, però, ci riesce il regista Luca Guadagnino. Sarà anche per questo, forse, che il suo lavoro è candidato a quattro premi Oscar: miglior film, miglior attore protagonista per l’interpretazione straordinaria del giovanissimo Timothée Chalamet, migliore sceneggiatura non originale e migliore canzone originale per Mistery of Love di Sufjan Stevens.

Tratta dall’omonimo romanzo di André Aciman del 2007, edito in versione italiana da Guanda (2008), la scrittura cinematografica è dello stesso regista, affiancato da Walter Fasano e dal grande scrittore e regista James Ivory. L’ambientazione filmica è nell’Italia del Nord a quasi metà degli anni Ottanta del secolo scorso, nella villa del Seicento di un docente ebreo appassionato ricercatore di cultura antica, che ci trascorre i periodi estivi assieme alla moglie e a suo figlio, il diciassettenne Elio.

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Come accade ogni estate, la famiglia accoglie un giovane studioso alle prese con il dottorato di ricerca. Questa volta, arriva Oliver, ventiquattrenne ebreo statunitense – interpretato dal bravo Armie Hammer – un ragazzo bello e colto che sorprende in negativo, soprattutto Elio, per i suoi atteggiamenti da guascone che vengono a scombinare la noiosa “routine” quotidiana dei Perlman.

Ben presto, però, la diversità comportamentale finisce per sedurre tutti, in particolar modo il giovanissimo figlio del docente, complicando ma anche arricchendo la sua ricerca dell’identità sociale e culturale e, in modo sconvolgente e inaspettato, quella sessuale. La sua passione amorosa, dopo reciproche incomprensioni, dispetti e complicità nascoste, viene ricambiata da Oliver e i due protagonisti vivono un’appassionata storia d’amore.

L’estate meteorologica finisce e termina anche quella del sentimento non socialmente accettabile, forse nemmeno per gli stessi protagonisti. Di sicuro per Oliver, che torna in America e, rintracciato qualche tempo dopo da Elio, sofferente per la separazione, riferisce al giovane ex amante che è fidanzato con una donna e sta per sposarsi.

La “mano” del vecchio Ivory si sente, soprattutto nella capacità di raccontare il non detto delle relazioni umane, senza nulla togliere agli altri sceneggiatori. La regia di Guadagnino ci sorprende, invece, per il rigore estetico, che in parte è mancato nelle sue pur notevoli opere precedenti – Io sono l’amore e A Bigger Splash – che compongono assieme a quest’ultima prova, per sua stessa dichiarazione, una “trilogia del desiderio”.

È proprio tra logos e pathos, in effetti, che facciamo esperienza del mondo, tra la ragione del dettato sociale e il sentimento che è vita quasi sempre repressa. Durante la nostra esistenza, dovremmo tener conto, come diceva il filosofo Blaise Pascal, che il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce.

Quando ci capita di incontrare qualcuno diverso da noi, che esprime uno stile di vita alternativo rispetto a quello che ci hanno trasmesso e che abbiamo interiorizzato, convinti di averlo scelto, allora può esplodere qualcos’altro che è sempre dentro il nostro io, ma non riesce a realizzarsi attraverso le rigide regole del comportamento sociale. Può accadere, infine, di vederlo rappresentato dal corpo e riflesso nel desiderio di un’altra persona e nel suono del nostro nome di cui le facciamo dono per esprimerle il nostro sentimento.

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