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Bloccati sull’isola che non c’è: i “Neet” italiani

Sarah Brandi di Sarah Brandi
30 Giugno 2021
in Attualità
Tempo di lettura: 3 minuti
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Nel 1999, in un report della Social Exclusion Unit del governo del Regno Unito, apparve per la prima volta l’acronimo Neet, una sigla che sta per not (engaged) in education, employement or training e che, in quel caso, stava a indicare i giovani tra i 16 e 24 anni i quali, alle porte del 2000, nel Paese della Regina Elisabetta non erano impegnati a ricevere un’istruzione o una formazione, non avevano impiego, né lo cercavano. Da allora, il termine è entrato nel linguaggio di ogni giorno e di ogni nazione per indicare più in generale quella fetta di popolazione che non ha alcuna occupazione lavorativa o formativa e la cui età può andare dai 16 ai 35 anni, ma può anche estendersi fino ai 65.

In Italia l’uso dell’acronimo è ormai comunemente adoperato, alternato alla denominazione di né-né, proprio per designare i cittadini inattivi che compongono una vera e propria Neet generation. Infatti, se il fenomeno è molto diffuso in tutto il mondo, il Bel Paese sembra essere la terra d’Occidente che ospita il maggior numero di Neet. Dai dati raccolti dall’Istat si può facilmente constatare che dal 2004 la percentuale di giovani tra i 15 e i 34 anni privi di qualsiasi attività è andato costantemente crescendo (salvo un lieve ribasso nel 2007) arrivando a toccare un  picco del 26.2% nel 2017. Seconda solo alla Grecia, la nazione a forma di stivale è quella che in Europa raggiunge le vette più alte nel numero di ragazzi bloccati in questa situazione: se la media europea è del 13%, quella italiana è del ben 22%.

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C’è da sottolineare, tuttavia, che all’interno della macro-categoria a cui facciamo riferimento vengono ospitate diversi sottogruppi: Neet, infatti, sono quei giovani che dopo l’età dell’obbligo hanno deciso di lasciare la scuola per trascorrere le giornate senza far nulla di concreto, sono i neolaureati che si prendono un anno di pausa per fare nuove esperienze, sono quelli che attivamente cercano un lavoro, ma anche quelli che scoraggiati hanno smesso di farlo.

Ma perché in Italia il numero di questi inoccupati è talmente alto? Le percentuali così sopraelevate fanno pensare che il problema sia tanto nelle strutture sociali quanto in quelle economiche del nostro Paese. Perché se molti degli individui da etichettare come né-né hanno scelto consapevolmente la situazione in cui si trovano per la loro svogliatezza o semplicemente perché vogliosi di fare esperienze di vita prima di gettarsi a capofitto nel lavoro, un quantitativo ancora maggiore si è ritrovato catapultato in questo limbo inconsapevolmente: per quale motivo continuare a cercare un impiego, se quelli offerti non permetterebbero di mantenere una parvenza di dignità? Perché tentare di trovare un’occupazione, se si sa benissimo che l’istruzione che l’università ha dato è insufficiente a svolgerla?

La panchina su cui si trovano a sostare migliaia e migliaia di ragazzi volonterosi è stata fabbricata da uno Stato che più che dare opportunità ai giovani lavoratori, chiede loro standard impossibili per accedere a una qualsiasi posizione, agevolando quegli adulti che hanno avuto, al contrario, la possibilità di accumulare anni e anni d’esperienza. La gabbia in cui i più intraprendenti si ritrovano intrappolati è stata forgiata dall’acciaio della scuola italiana che ha riempito le loro teste di innumerevoli nozioni, di certo utili se solo fossero state accompagnate da esperienza e abilità concrete.

Accusati di essere eterni Peter Pan, privi di qualsiasi brama che li spinga a lasciare la loro isola che non c’è, i Neet nostrani si trovano quindi a dover affrontare un sistema in cui la disinformazione regna, nonostante l’abissale presenza di strumenti per riceverla: nessuno che dica loro come compiere la transizione dalla scuola al lavoro, nessun valido apparato d’orientamento. Questi giovani si ritrovano perduti su una mappa che ha mille sentieri, tutti bloccati da requisiti impossibili da avere a 25 anni o che, se percorribili, conducono a nient’altro che un tirocinio formativo pagato con un semplice rimborso spese e la cui durata si limita a non più di sei mesi, senza prospettiva alcuna di rinnovo futuro. E con questo, non si vuole dire che per i più piccoli sia impossibile trovare un lavoro, ma solo che per quelli già insicuri e dubbiosi delle loro capacità la pressione del sistema italiano non fa altro che incrementare le incertezze, condizionandoli psicologicamente e spingendoli pian piano all’inoperosità.

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