Aveva solo sei anni, Artemisia, ma era già esperta nel trattare le cose della pittura; fin da piccolissima gli zampettava intorno e non lo lasciava un minuto mentre dipingeva, e a lui piaceva vederla lì e parlarle, spiegarle, raccontarle tutto quello che gli veniva in mente come fosse grande.
La celebre pittrice Artemisia Gentileschi, sin da piccola affiancò il padre Orazio nel suo lavoro da artista, dimostrando un’incredibile abilità innata, una passione da coltivare come il bene più prezioso.
A lei piaceva quell’odore di vernice fresca, le piaceva la linea che divideva le parti in ombra da quelle in luce, che le metteva in evidenza, dando rilievo e forza; le piacevano i mucchi di stoffe diverse, rasi e sete dai riflessi cangianti che avrebbero coperto le spalle seminude di sante e madonne.
Quella stessa passione che Orazio Gentileschi curò con infinito amore, mostrando alla figlia tutto quello che c’era da sapere per poter apprendere i segreti del mestiere. Una tale attività, però, era destinata a rimanere segreta, dal momento che, secondo la cultura del tempo, non era possibile che esistessero donne pittrici.
L’ambiente romano dell’epoca era ricco di artisti in grado di incantare lo sguardo con le loro pennellate, le loro prospettive, le luci e le ombre. Nella stessa città in cui Caravaggio lasciò il segno indelebile del suo passaggio, la geniale Artemisia acquisì quello stile che verrà definito, per l’appunto, “caravaggesco”.
La Gentileschi divenne una ragazza bellissima e con lei crebbe esponenzialmente l’amore verso la pittura, un amore che desiderava portare avanti per farne un mestiere ma che, in un mondo di pittori uomini, doveva necessariamente nascondere: alle donne non era permesso diventare artiste e, per questo motivo, la sua vita si trasformò in una sorta di reclusione, in un isolamento che era frutto specialmente della volontà del padre, il quale, dopo la morte della moglie, decise di proibire alla giovane di uscire di casa.
Artemisia obbediva e si occupava solo di pittura; si alzava presto, tirava l’acqua dal pozzo, accendeva il fuoco, ripuliva i pennelli, pestava i colori nel mortaio, li mescolava, preparava le tavolozze; poi passava le giornate a disegnare e dipingere, con furia, con rabbia, mentre l’affetto per il padre si mutava in rancore. Erano passati cinque anni.
Un affetto forse troppo grande, quello provato da Orazio verso la figlia, sua prediletta, la quale aveva ormai raggiunto l’età per il matrimonio e sperava di poter trovare l’amore. Il suo destino, però, fu estremamente diverso da quello delle altre fanciulle della sua età. Giravano voci errate sul suo conto, calunnie. Infine, arrivò il noto stupro da parte di un “amico” del padre, Agostino Tassi. Il processo si chiuse a favore di Artemisia, la quale subì, a dimostrazione della veridicità delle sue accuse, delle vere e proprie torture fisiche, mentre la sola conseguenza per il Tassi fu, invece, una pena lieve.
Dipingere era il mezzo attraverso il quale la giovane pittrice poté mostrare la sua anima, imprimendo sulla tela emozioni troppo forti per poter esser contenute. Un tormento che fu sempre il più grande sentimento. Sconfinato, inarrestabile. Uno stile, il suo, che la condusse verso un importante traguardo: essere la prima donna a entrare a far parte dell’Accademia del Disegno.
Una donna ormai emancipata per sempre, diventata talmente famosa che pittori e viaggiatori da tutto il mondo volevano conoscerla e omaggiarla, un’artista che non aveva più bisogno della garanzia di nessun uomo per continuare a dipingere.
