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Antonio Gramsci: irrequietezza e libertà

Redazione di Redazione
6 Ottobre 2022
in Rubriche
Tempo di lettura: 3 minuti
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Intanto non è vero che irrequieti siano solo gli “attivi” ciecamente: avviene che l’irrequietezza porta all’immobilità: quando gli stimoli all’azione sono molti e contrastanti, l’irrequietezza appunto si fa “immobilità”.

Fumo, non fumo, smetto quando voglio, smetto la prossima settimana, diminuisco. Intanto, però, è l’immobilismo a prendere il sopravvento: fumo sempre uguale. Ma che cosa è questa smania circolare dell’uomo moderno?

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Si può dire che l’irrequietezza è dovuta al fatto che non c’è identità tra teoria e pratica, ciò che ancora vuol dire che c’è una doppia ipocrisia: cioè si opera mentre nell’operare c’è una teoria o giustificazione implicita che non si vuole confessare, e si “confessa” ossia si afferma una teoria che non ha una corrispondenza con la pratica.

Da qui, con le diverse sfumature del caso, nascono i conflitti interiori che generano la nostra scontentezza e insoddisfazione. Anche dentro di me c’è il perenne conflitto tra un io renziano e un io gramsciano ma spesso, tentando di assecondare e far prevalere la mia parte migliore, agisco premiando la peggiore. O viceversa. Un conflitto che nasce hegeliano, di dialettica, di lotta tra bene e male ma che, nel frullatore della vita, si confonde, si sminuzza perdendo i contorni fissi e assumendo i lineamenti di maschere di teatro.

L’uomo moderno recita, recita sempre, ma, dimenticando continuamente la sua parte, recita a braccio, senza rispettare nessun copione e creando solitudine e livore. Ecco dove l’irrequietezza trova l’humus ideale per radicarsi e irrobustirsi. Aumentano così confusioni e disagi, anche senza motivazioni reali, finendo per non riconoscerci appieno in nessuna delle maschere che indossiamo.

Ma c’è una terza ipocrisia: all’irrequietezza si cerca una causa fittizia, che non giustificando e non spiegando, non permette di vedere quando l’irrequietezza stessa finirà. Una condizione di frustrazione permanente molto complessa.

Inutile cercare conforto tra gli intellettuali che non sono mai uomini d’azione e che, svolgendo nella società italiana un ruolo “sacerdotale” a oltranza, tendono a mummificarla, a trasformare le nostre città in “conventi”. Il conformismo intellettuale diventa controllo burocratico di pulsioni e desideri. Una casta che, proprio perché adatta a indottrinare qualsiasi dottrina possibile, basta che sia quella dominante, pone un freno clerico-militare allo sviluppo della nostra personalità. Prendiamo, ad esempio, il conflitto generazionale.

Nella lotta dei giovani contro gli anziani, sia pure nelle forme caotiche del caso, c’è il riflesso di questo giudizio di condanna, che è ingiusto solo nella forma. In realtà gli anziani “dirigono” la vita, ma fingono di non dirigerla, di lasciare ai giovani la direzione, ma anche la “finzione” ha importanza in queste cose. I giovani vedono che i risultati delle loro azioni sono contrari alle loro aspettative, credono di “dirigere” (o fingono di credere) e diventano tanto più irrequieti e scontenti.

Ciò aggrava la situazione trasformando, il più delle volte, ogni azione in blocco. Da una parte si impedisce che meccanismi di vitalità si sviluppino autonomamente e creino evoluzione, personale o collettiva. Dall’altro, però, si innesca la finzione di massa che impedisce a chi detiene il potere di risolvere le crisi, anche in questo caso personali o collettive.

Le crisi, in un certo senso, rafforzano il potere e, spesso, sono di fatto create proprio per proteggerlo. Un gioco di specchi dove ogni movimento diventa il suo contrario: falso movimento. Le derive autodistruttive che si insinuano nelle nostre coscienze non sono altro che l’inconsapevole consapevolezza di una cronica impotenza intima e politica. Il potere, quindi, si manifesta solo nella capacità di perpetuare se stesso, senza però poter incidere nella risoluzione delle crisi.

All’irrequietezza sterile e nevrotica dell’uomo contemporaneo, Gramsci antepone l’agitazione, la tensione costruttiva e permanente che, soprattutto i giovani, devono avere nel loro agire agitato, partigiano, mai indifferente. La formazione, centrale nel suo pensiero, laddove è condivisione crea i presupposti per la trasformazione dell’irrequietezza in agitazione. Un movimento mai falso, mai fatto di danze immobili proprio perché basato su un agire comune, su un sentire e sapere comuni.

Gramsci non aveva nessuna fiducia negli intellettuali da salotto, ne aveva però e tanta nei ragazzi, dove lo scontro hegeliano tra bene e male non si inaridisce nella lingua fangosa della burocrazia. La forza che trasforma ogni congettura mentale in anelito di libertà: dato che la crisi è talmente grave e domanda mezzi così eccezionali, che solo chi ha visto l’inferno può decidere ad impiegarli senza tremare o esitare.

Il Gramsci prigioniero eleva il suo forzato immobilismo in azione pura. In quest’autunno calloso e torbido, fatto di fame, odio e guerra, queste parole ci indicano un cammino: iniziamo a sconfiggere il fascismo dentro noi stessi, poi scendiamo in strada e occupiamole di sogni.

Contributo a cura di Luca Musella

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