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Unione Europea: quale futuro dopo domenica?

Alessandro Campaiola di Alessandro Campaiola
20 Maggio 2019
in Il Fatto
Tempo di lettura: 3 minuti
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Domenica prossima, 26 maggio, si voterà per rinnovare il Parlamento Europeo, una tornata elettorale di straordinaria importanza a cui l’Italia si avvicina nel modo più errato possibile. Sbagliano i rappresentanti della maggioranza di governo – Lega e 5 Stelle – che parlano, al proprio elettorato, del voto continentale come di una questione globale necessaria a cambiare gli equilibri del giardino di casa (e non è così!); sbagliano le forze democratiche che evitano il confronto con l’avversario nella (motivata) paura di perdere ulteriori consensi, ma che si ritroveranno, in questo modo, in minoranza a far parte del gruppo che ancora terrà le redini dell’Unione. 

I partiti che, al momento, monopolizzano la scena politica nazionale – i pentastellati e il Carroccio – hanno utilizzato i mesi della campagna elettorale al solo scopo di ridisegnare i rapporti di forza all’interno del Parlamento italiano. Entrambi sanno che le percentuali di preferenza dei cittadini dello Stivale sono ormai sovvertite rispetto a un anno fa e i padani di verde vestiti fiutano – nel caso probabile di una loro netta affermazione – lo scacco matto ai colleghi grillini, logorati da una battaglia persa sin dalle prime mosse. 

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E allora litigano (fanno finta di litigare), si allontanano allo scopo di ricompattare l’elettorato confuso da un’alleanza che – stando alle dichiarazioni di queste ultime settimane – non avrebbe motivo di esistere, affrontano i temi caldi del dibattito nazionale attribuendo alla presenza in Europa il motivo delle scelte fatte e, soprattutto, di quelle mai adoperate. La realtà dei fatti, però, è l’esatto contrario dello scenario proposto. 

Anche quando si parla di immigrazione – l’argomento più caro alle folle giallo-verdi – Di Maio e Salvini evitano di illustrare le distinzioni tra competenze comunitarie e responsabilità nazionali. Urlano di porti chiusi, di porti da aprire, di chi li sbarra e chi, invece, impone loro di tenerli aperti, una diatriba messa su a regola d’arte, a discapito della vita di chi viene dal mare, al solo scopo di tenere alte le pulsazioni nei polsi di quei piranha affamati che sono i loro seguaci, bramosi della loro dose di odio quotidiano.

Entrambi, pur di tenersi saldi alle poltrone di Montecitorio, rinunciano al dialogo con l’Unione, a dettarne le migliorie di cui avrebbe certamente bisogno. I due Vicepremier sanno che lunedì prossimo lo scenario europeo non sarà cambiato, che i ruoli, a Bruxelles, non muteranno, dunque, questo finto tiro e molla, questo ridicolo teatrino fatto di scaramucce non avrà fatto altro che escludere – ancora più di quanto non accada già – l’Italia dai tavoli che contano oltre-confine, dalle decisioni che finiranno per incidere sulle vite di chi crede basti portare il deficit oltre la soglia consentita del 3% per risolvere tutti i problemi in cui questo Paese malato è incappato, anziché pretendere dai propri rappresentanti lavoro e crescita del PIL.

Neppure la Brexit ha insegnato nulla alle donne e agli uomini del tricolore? Promesse di cambiamento che gli stessi politici promotori della rivoluzione sovranista non sono stati in grado di controllare, di portare a termine, anche a rischio di salutare l’Unione senza un accordo, puntando i piedi, sbattendo le porte. Il dramma delle conseguenze, ossia una notevole riduzione della propria influenza sui mercati esteri, sulle esportazioni, sui rapporti con le banche, muove i fili anche di chi si dice pronto a spezzarli. Stando ai sondaggi, quindi, sembra proprio che la risposta al quesito sia un laconico no.

E il PD? L’abbiamo scritto in apertura, si mantiene docile, vigile, pavido. Sa bene – e l’immobilità dei suoi rappresentanti lo dimostra – che affrontare il rivale sui ring messi a disposizione dalla discussione pubblica significherebbe uscirne con le vesti ridotte a brandelli e la credibilità portata ai minimi storici. Meglio (?), allora, un atteggiamento guardingo, sulla linea del fuorigioco come il Pippo Inzaghi dei tempi migliori, pronti ad avventarsi su un’eventuale palla che viene buona dalla mischia. Il dubbio, lecito, di chi domenica affronterà la scheda elettorale con naso otturato e la mano sugli occhi, e gli concederà ancora il privilegio della propria X, è che non sia in grado di trasformarla come, invece, era solito fare l’ex attaccante della nazionale. 

Il voto utile, il 26 maggio prossimo, è dunque quello che convincerà l’Unione Europea che la sua sopravvivenza passa dal tenere fede ai principi per la quale è nata, quegli aspetti che solo una sua affermazione sarebbe in grado di garantire: libertà, sicurezza, regole e pace, coinvolgendo attivamente e in egual misura (oltre le diseguaglianze attuali pro Francia e Germania) tutti gli Stati facenti parte. L’Italia democratica, unita, ha il potenziale per recitare la propria parte. Tuttavia se, come invece pare accadrà, si presenterà all’appuntamento frammentata, e in associazione con chi sembra volerne smontare i bulloni fondanti, il rischio di rimpiangere presto i giorni che hanno compattato le stelle dorate sullo sfondo blu della bandiera continentale sarà molto alto, un pericoloso salto nel buio dell’isolamento.

Prec.

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