Leggendo un romanzo, a volte, capita di catapultarci in un’epoca diversa dalla nostra: quella che ci veniva raccontata dai nonni quando ancora guardavamo con occhi incantati la realtà, un’età che di tanto in tanto andiamo a sbirciare fra i polverosi libri di storia e che la televisione tende a ricordarci per far in modo che ne rimanga sempre indelebile la traccia cosicché la gomma figurante il presente non possa cancellarla. Siamo la generazione di coloro che vengono definiti eredi di un periodo storico che presenta un infimo rapporto con l’immediato passato, per cui la Seconda Guerra Mondiale o non la si ricorda o non è mai stata vissuta in prima persona.
Dopo la fine del conflitto nel 1945 in Italia si ebbe una forte esplosione letteraria nata dalla necessità di raccontare: la scrittura non fu più semplicemente uno svago o il lusus di quei poeti sgangherati che abbozzavano le loro vite amorose tormentate su un foglio di carta, bensì un vero e proprio fatto esistenziale, fisiologico e collettivo. Primo Levi – autore riconosciuto per aver fornito un’immagine chiara e consistente di quello che furono i campi di concentramento –, ad esempio, rappresenta l’immagine ideale dello scrittore nato in clima di guerra. Fu egli stesso, infatti, ad affermare: Se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz probabilmente non avrei scritto mai nulla.
La guerra, quindi, si intersecò con le vite della gente dell’epoca, portando cambiamenti radicali anche in fatto di letteratura, tanto da creare una vera e propria corrente artistica e letteraria, il Neorealismo, affermatasi non come una scuola ma come un insieme di voci provenienti da piccole province e zone periferiche, con una molteplice scoperta delle diverse Italie che, fino a quel momento, si erano mostrate come misteriose e distanti dalla cultura.
Italo Calvino descrisse questa fase in cui egli stesso si trovò a vivere nella prefazione del suo primo libro, Il sentiero dei nidi di ragno – che rievocava la Resistenza –, in cui mostrò come chiunque sentisse la smania di raccontare: dalle conversazioni che si ascoltavano dagli sconosciuti sui treni alle mense del popolo e anche dalle donne nelle code dei negozi il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d’altre epoche; ci muovevamo in un multicolore universo di storie. Ma uno scrittore che si distinse delineando i contorni di quegli anni con la precisione di un pittore fu Beppe Fenoglio, nato il 1 marzo del 1922 ad Alba, nelle Langhe, dove trascorse quasi tutta la sua vita esclusi i mesi del servizio militare a Roma. Alunno modello e appassionato della lingua inglese, fu lettore vorace di poeti e autori anglosassoni dei quali iniziò anche alcune traduzioni, considerando la loro civiltà e cultura come un antidoto per combattere il provincialismo dell’Italia fascista. Tornò al suo paese natio solo per combattere la guerra partigiana della quale iniziò a narrare nei propri romanzi.
Una questione privata, intitolato precedentemente Un giorno di fuoco, è stato pubblicato in diverse edizioni, l’ultima datata 1965. Non è il suo libro più famoso – poiché Il Partigiano Johnny è di solito considerato il capolavoro dello scrittore – e non è nemmeno un romanzo compiuto, più volte quindi inaugurato ma mai portato a termine. Tuttavia, rappresenta la storia che tutti stavano aspettando con la descrizione dettagliata di un periodo travagliato e passato di voce in voce e di casa in casa, ma che nessuno era mai riuscito a disegnare concretamente. Calvino a proposito affermò: “Una questione privata” è costruito con la geometrica tensione di un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’“Orlando Furioso”, c’era la resistenza proprio com’era di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, con commozione e furia. È un libro di paesaggi, di figure rapide e vive, di parole precise e vere. Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue si insegue per inseguire altro e non si arriva al vero perché.
È Milton, infatti, protagonista del romanzo, a essere proteso verso un continuo inseguimento andando alla ricerca di una risposta, un dubbio che lo perseguita e lo affligge nel corso delle già dure giornate da partigiano. La sua, però, non è la ricerca del tempo perduto di cui parlò Proust, ma di Giorgio, un amico che è stato catturato dai fascisti. Nel mezzo, tuttavia, c’è sempre l’amore: essendo venuto a conoscenza di una relazione tra il compagno e Fulvia, la donna che ha follemente amato, in questa smania di ritrovare lui, si cela quella di ritrovare lei. La ricerca ossessiva della verità e del proprio amore diviene, quindi, una ricerca ossessiva di Giorgio su cui si spalma l’intero romanzo. Un crescendo di inseguimenti e fughe che mantiene vivo il lettore attraverso il suo linguaggio secco, asciutto e immediato come uno sparo.
La figura quasi angelica di Fulvia non è quella di una donna qualunque ma di un eden perduto, qualcosa di desiderabile ma irraggiungibile che avvicina lo scrittore a Cesare Pavese, alla ricerca anch’egli di una donna sconosciuta, che doveva, forse, ancora essere plasmata. Nel romanzo, comunque, l’amore va oltre le contingenze con il protagonista che narra della guerra partigiana alla sua amata – guardando da lontano la casa di lei in cui si sono trovati nei tempi anteriori al conflitto – rassicurandola che nulla può averlo cambiato, neppure la violenza bellica. Così come non sono cambiati i sentimenti nei suoi confronti: Sono sempre lo stesso, Fulvia. Ho fatto tanto, ho camminato tanto… sono scappato e ho inseguito. Mi sono sentito vivo come mai e mi son visto morto. Ho riso e ho pianto. Ho ucciso un uomo, a caldo. Ne ho visti uccidere, a freddo, moltissimi. Ma io sono sempre lo stesso. Il tutto termina con una corsa affannosa per raggiungere un qualcosa di vano e di astratto, un’immagine che si traduce al lettore come metonimia di morte.
Quel che interessava a Fenoglio non era il denaro, la fortuna o il successo, egli voleva soltanto scrivere e – come altri neorealisti – esprimere se stesso, esternando le sue esperienze e immedesimandosi seppur in parte nei personaggi dei suoi romanzi: Milton, infatti, è Beppe più di quanto non lo sia Johnny de Il Partigiano, riprende in lui l’aspetto fisico, la passione per la pallacanestro e il disagio per il ballo. Ci mostra inoltre quanto fosse estremamente legato alla sua città di origine, Alba, che definì come la nostra grande madre Langa.
Questa fase brutale che fu la Resistenza divenne egemone nella letteratura, portando l’affermarsi di scritture di spicco e di storie che nessuno prima di allora aveva mai pensato di poter raccontare, completamente intrise di una malinconia e nostalgia così forti da tramutarsi in motore poetico. Per dirla alla Calvino, la memoria – o meglio l’esperienza, che è la memoria più ferita che ti ha lasciato, più il cambiamento che ha portato in te e che ti ha fatto diverso –, l’esperienza primo nutrimento dell’opera letteraria, ricchezza vera dello scrittore, ecco che appena ha dato forma a un’opera letteraria insecchisce, si distrugge. Lo scrittore si ritrova a essere il più povero degli uomini.